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Le tattiche del Senatùr e del Cav.

Il gioco dei due furbi

Anche questa volta la <i>rupture</i> non ci sarà. Ma la crisi è vicina

di Enrico Cisnetto - 02 maggio 2011

Anche questa volta, la crisi di governo non ci sarà. Ma le tensioni di queste ultime ore – quelle che hanno visto fronteggiarsi Pdl e Lega, come pure Berlusconi e Tremonti – sono destinate a lasciare il segno. Per poi magari diventare decisive prossimamente. Da un lato, Bossi cercava da tempo, per ragioni puramente elettorali, l’occasione giusta per marcare le differenze che lo separano dal premier, e ha pensato – anche grazie ad un errore marchiano del Pd – che la questione della Libia potesse fare il caso suo.

Dall’altro, Berlusconi riapplica il solito schema con cui gioca le partite difficili quando volgono al peggio: cerca un capro espiatorio. Che nella fattispecie, dopo Follini, Casini e Fini, si chiama Tremonti. Le due cose in sé non sono tali da destabilizzare il governo fino al punto di farlo cadere, ma il loro combinato disposto prima o poi sì. A meno che non ci sia qualcuno che, con più sale in zucca di altri, riesca a disinnescare le due micce. Vediamo in dettaglio entrambi gli scenari.

Come ha giustamente notato Stefano Folli, i rapporti tra il leader della Lega e il Cavaliere sono “ai minimi termini”, ed era dai tempi dello “strappo” del 1994-95 che il Carroccio non usava toni così sprezzanti nei confronti del Berlusca. Non siamo di fronte, però, ad una crisi dei rapporti personali – nonostante che la mancata comunicazione sul cambiamento di linea nella vicenda libica abbia lasciato un segno profondo – bensì alla presa d’atto da parte di Bossi che l’alleanza di governo ha dato tutto quello che poteva dare e che, viceversa, da un po’ di tempo a questa parte procura alla base della Lega, ma quel che più conta al suo elettorato diffuso, crescente malessere.

I primi ad essere più sensibili a questa percezione sono stati i governatori e i sindaci leghisti – da Zaia a Tosi – ma poi anche i ministri hanno cominciato a dire a Bossi che prima o poi bisognerà tagliare la corda. L’evolversi della vicenda libica – che nel linguaggio leghista è riassumibile in “spender soldi per andar dietro agli interessi di Sarkozy prima e di Obama ora” – rappresentava l’occasione perfetta per prendere le distanze.

Anche perché Bersani ha aperto un varco enorme quando ha chiesto il voto parlamentare su una mozione “anti-guerra”, senza accorgersi che quella era prima di tutto la posizione del Quirinale, che nella circostanza ha tenuto i contatti con gli americani (non a caso Obama alla Casa Bianca ha ricevuto Napolitano ma non Berlusconi).

Per questo Bossi ha preso tre piccioni con una fava: ha mandato un messaggio di autonomia alla vigilia delle amministrative, che dovrebbe aiutarlo a fare il pieno di voti; ha messo il premier nelle condizioni di mettere sul piatto merce di scambio (le nomine ci sono già state, ma c’è sempre potere da negoziare) se vuole recuperare; ha spiazzato Bersani, costringendolo o a inseguirlo e rompere così con Napolitano, o a lasciare alla Lega i galloni del “no war” per evitare di rompere con il Quirinale, ma a quel punto salvando il governo (in questo caso doppio guadagno per Bossi, fa il pieno di consenso sulla Libia e non fa cadere il governo). Questo per Bossi significa cuocere a fuoco lento il Cavaliere, esattamente come a Milano, dove non a caso ha fatto intuire di non affaticarsi più di tanto a portar voti alla mai amata Moratti quando ieri ha dichiarato che “a Milano corre Berlusconi, se si perde, perde Berlusconi”.

Insomma, sul caso libico, e in particolare sulla vicenda della “mozione parlamentare”, probabilmente ci si metterà una pezza – specie se il premier lascerà il pallino in mano al Capo dello Stato – ma sulla questione di fondo, cioè il progressivo venir meno del collante che ha tenuto insieme Pdl e Lega come maggioranza di governo, la rottura sembra sancita. E attiene alla perdita di leadership da parte di Berlusconi, che Bossi considera irreversibile. Per questo il presidente del Consiglio ha deciso di giocare per l’ennesima volta la carta del “traditore”. Individuare, cioè, qualcuno su cui far ricadere la colpa, in modo da provare a rinegoziare il patto con la Lega o contenere il danno sul piano del consenso elettorale. E questo qualcuno si chiama Tremonti.

Con lui aveva già fatto questo gioco nell’estate del 2004, quando approfittando della malattia di Bossi lo rimosse da ministro. Poi aveva cominciato a riprovarci a Natale, quando dalle colonne del Giornale partì un primo attacco al ministro dell’Economia. Ora ha ricominciato con più veemenza, e a ben poco valgono le due smentite, con relativi atti di solidarietà, che ha dovuto fare per evitare che la situazione precipitasse.

Ma così facendo Berlusconi rischia solo di complicarsi la vita, oltre che di esporre il Paese a gravi pericoli proprio mentre ci aspetta il negoziato con l’Europa sulle manovre correttive dei conti pubblici. Perché finché regge l’asse, fin qui di ferro, tra Bossi e Tremonti, avere contemporaneamente fronti aperti con entrambi appare una mission davvero impossible. Anche per l’inossidabile “Cavalier pompetta”.

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