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Tassa sulle sigarette elettroniche

Il fumo e l'arrosto

Il fisco moralizzatore fa male all'industria e anche alla salute

di Davide Giacalone - 16 maggio 2013

Immaginare di coprire la spesa per il pagamento dei debiti statali, verso privati fornitori, mediante tassazione delle sigarette elettroniche era illogico, infatti hanno rinunciato. A parte l’assurdo di cercare oggi coperture per spese che dovevano esserlo quando furono disposte, resta che i tempi di quei pagamenti (si spera) sono totalmente disallineati rispetto all’ipotetica riscossione. Ciò non toglie che c’è un problema, circa le sigarette non sigarette.

Quando si usa il fisco con l’idea d’educare i popoli si cade in trappole dalle quali non si riesce a uscire. Il tabacco (di cui, avverto i lettori, sono consumatore) è tassatissimo. L’accisa è, mediamente, del 58%, e l’iva, al 21%, si calcola sul prezzo, maggiorato dall’accisa. In questo modo si paga l’imposta sull’accisa, che già di suo è un obbrobrio. Quando un cittadino va a compare dei prodotti da fumo su 100 che paga 76 è destinato al fisco. Ogni volta che c’è bisogno di far cassa il tabacco e la benzina sono sempre in cima alla lista. Nel campo del tabacco questo comporta anche un fastidioso effetto collaterale: rende più conveniente il contrabbando. Tale gravosissima pressione fiscale viene giustificata anche in considerazione del fatto che fumare nuoce alla salute. Da fumatore, ritengo la mia salute più a rischio per altri fattori, che non solo non acquisto, ma respiro gratis circolando in città che detengono record europei di traffico automobilistico. Ma non è di questo che qui mi occupo.

Il fisco educatore ha distorto il mercato rendendo più facile la concorrenza per i produttori e distributori delle così dette sigarette elettroniche, sulle quali grava esclusivamente il 21% di iva. Bene così, dirà qualcuno, perché si tratta di prodotti che non fanno male. E chi lo ha detto? Intanto fra gli additivi che si mettono in quegli strumenti, per poi essere vaporizzati, c’è la nicotina. Che non è esattamente aria di montagna. L’intera filiera è sotto l’esame dell’Ue. Sulle sostanze che profumano e aromatizzano non si sa un accidente. E, come se non bastasse, questi oggetti sono massicciamente prodotti non solo all’estero, ma fuori dal controllo delle norme europee. In altre parole: in nome della pedagogia fiscale stiamo perdendo gettito e favorendo il fatturato di produttori che vanno a letto quando noi ci svegliamo.

Posto che l’Italia ha bisogno di far scendere la pressione fiscale, quindi è pazzotico il giochino di togliere una tassa per metterne un’altra e che la cantilena dei “saldi invariati” dovrebbe essere intonata tagliando la spesa e non stonata inseguendo le entrate, posto ciò, non è né compito né diritto dello Stato stabilire cosa io debba fumare, fuori dalle sostanze stupefacenti, e mi pare semmai stupefacente che si creino categorie di fumatori fiscalmente tartassati e categorie di fumatori fiscalmente favoriti. Dove i primi sono quelli, oltre tutto, che consumano i prodotti delle nostre manifatture. Stiamo, insomma, praticando una forma di protezionismo al contrario, disincentivando i nostri prodotti e incentivando quelli altrui.

Che il villico fumatore di toscano, tanto anziano da far considerare sotto una luce inutilmente iettatoria le scritte mortuarie che campeggiano sulla scatola, debba finanziare la crescita dei vaporizzatori, per giunta dovendosi sentire lui quale appestatore e gli altri quali benefattori, è curioso. E siccome il fenomeno, al momento, è molto italiano, vai a vedere che proprio il fisco sia riuscito a far trovare l’arrosto dei profitti penalizzando il fumo del tabacco. Ragioni per le quali, non entrandoci un bel nulla il pagamento dei debiti statali, una perequazione sarebbe saggia. Meglio a scendere, togliendo tasse anziché mettendole.

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