Difendersi con le dimissioni
Il caso Malinconico
Usare la cosa pubblica a proprio vantaggio anzichè considerarsi al suo serviziodi Davide Giacalone - 11 gennaio 2012
Anche con Carlo Malinconico la scena è sempre la stessa, e mette tristezza: si svela un episodio inaccettabile, il protagonista nega inventando panzane, poi resiste al suo posto contro ogni evidenza, quindi, richiamato da chi rischia di essere da tale condotta danneggiato, rassegna le dimissioni dicendo che vuole essere libero nel difendersi, ed è salutato con i complimenti per il senso di responsabilità. Già visto. Ora rivisto. Quel che fa rabbia è l’inevitabilità dell’accaduto e l’insensibilità etica di chi non avverte l’orrore dell’errore commesso.
L’inevitabilità sembra una maledizione. Mario Monti ha potuto scegliere liberamente i ministri e i sottosegretari, accompagnato dalla totale copertura del Quirinale e dall’inesistenza politica dei partiti. La maggioranza di cui dispone non ha altra scelta che sostenerlo, nessuno avendo la voglia e lo spessore per porre questioni che possano portare alla caduta del governo. Almeno per ora. Il compito che gli è stato affidato è di tale difficoltà, tutto concentrato nel fronteggiare la crisi dell’euro (sbaglia a negarla, e vedremo già nelle prossime ore quanto può essere per noi pericolosa), che qualsiasi altra sua scelta sarebbe stata accompagnata dal consenso. Financo eccessivamente acritico. Possiamo ben scriverlo noi, che ne analizzammo la nascita quale conseguenza, e non causa, dell’implosione politica. In queste condizioni di straordinaria forza interna e totale libertà Monti ha scelto fra nomi che dovevano essere di consolidata competenza e al di sopra di ogni possibile attacco personale (che non fosse strumentale e infondato). E’ andata diversamente.
Dobbiamo chiedercene il perché. E dobbiamo escludere che Monti non conoscesse chi stava nominando o avesse alternative migliori, scartate per ragioni di potere ed equilibrio fra potentati. Ne andrebbe della sua competenza e serietà. Allora, perché? Questa è una possibile risposta: perché non puoi chiamare al governo chi sconosca completamente la cosa pubblica, giacché amministrare e governare è un compito altamente specialistico, precluso agli estranei, ma se chiami chi ha esperienza rischi incidenti di questo tipo, perché l’intermediazione pubblica di denari e favori è troppo vasta e pervasiva, sicché nessuno che abbia calcato la scena, a quei livelli, può considerarsi al di sopra di ogni sospetto. E Malinconico la scena la calcava da lungo tempo. Per capire i mali pubblici non basta scandagliare le debolezze private, perché il guasto non deve ripararsi nell’animo degli uomini, ma negli ingranaggi delle istituzioni. Le imprese che dipendono dalla spesa pubblica sono troppe, gli affari che dipendono da decisioni politiche sono troppi, sicché gestire la mediazione significa gestire affari. Con quel che segue. L’onestà personale è importante, naturalmente, e non è vero che tutti devono necessariamente corrompersi, ma va riassorbita la palude corruttiva, alimentata da troppo Stato nel mercato. Per farlo occorre privatizzare le gestioni e vendere ciò che non c’è ragione resti pubblico.
Poi c’è l’insensibilità. A Malinconico (che io sappia) non si contestano reati. Ove la procura decidesse di farlo egli, come chiunque altro, sarebbe da considerarsi innocente, almeno fino a eventuale condanna definitiva. Valeva la stessa cosa per Claudio Scajola, e lo scrivemmo anche per lui. Lo scriviamo per tutti. Ma Malinconico e Scajola hanno in comune l’incredibilità delle storie che raccontano e la impressionante mancanza di etica pubblica. L’idea che qualcuno ti paghi la casa o le vacanze è per loro accettabile, benché prudentemente occultata. Accettano l’idea di mostrarsi stupidi, una volta scoperti, pur di non fare i conti con la voragine apertasi fra il predicare e il razzolare, fra l’immagine che si ha di sé e quel che si è. Arrivano alle dimissioni non prendendo atto di un proprio errore, ma arrendendosi davanti all’impossibilità di non darle. Chiedo loro scusa se li ho citati, sinceramente. So bene che essi non sono delle eccezioni, ma parte di un vastissimo esercito, marciante verso l’uso della funzione pubblica per perseguire un proprio vantaggio, anziché del considerarsi al servizio della cosa pubblica. Servire lo Stato può portare ricchezza, sana e benedetta, se aiuta a formare le competenze che poi si vendono sul mercato, da privati, ma genera ricchezza opaca e nociva, se accumulata allettando il mercato con i propri poteri. In Italia si confondono i confini, alimentando collettiva insensibilità. Ciò pone le basi per l’inevitabilità di tali scene. Una condizione che addolora. E che il dimettersi non consola.
L’inevitabilità sembra una maledizione. Mario Monti ha potuto scegliere liberamente i ministri e i sottosegretari, accompagnato dalla totale copertura del Quirinale e dall’inesistenza politica dei partiti. La maggioranza di cui dispone non ha altra scelta che sostenerlo, nessuno avendo la voglia e lo spessore per porre questioni che possano portare alla caduta del governo. Almeno per ora. Il compito che gli è stato affidato è di tale difficoltà, tutto concentrato nel fronteggiare la crisi dell’euro (sbaglia a negarla, e vedremo già nelle prossime ore quanto può essere per noi pericolosa), che qualsiasi altra sua scelta sarebbe stata accompagnata dal consenso. Financo eccessivamente acritico. Possiamo ben scriverlo noi, che ne analizzammo la nascita quale conseguenza, e non causa, dell’implosione politica. In queste condizioni di straordinaria forza interna e totale libertà Monti ha scelto fra nomi che dovevano essere di consolidata competenza e al di sopra di ogni possibile attacco personale (che non fosse strumentale e infondato). E’ andata diversamente.
Dobbiamo chiedercene il perché. E dobbiamo escludere che Monti non conoscesse chi stava nominando o avesse alternative migliori, scartate per ragioni di potere ed equilibrio fra potentati. Ne andrebbe della sua competenza e serietà. Allora, perché? Questa è una possibile risposta: perché non puoi chiamare al governo chi sconosca completamente la cosa pubblica, giacché amministrare e governare è un compito altamente specialistico, precluso agli estranei, ma se chiami chi ha esperienza rischi incidenti di questo tipo, perché l’intermediazione pubblica di denari e favori è troppo vasta e pervasiva, sicché nessuno che abbia calcato la scena, a quei livelli, può considerarsi al di sopra di ogni sospetto. E Malinconico la scena la calcava da lungo tempo. Per capire i mali pubblici non basta scandagliare le debolezze private, perché il guasto non deve ripararsi nell’animo degli uomini, ma negli ingranaggi delle istituzioni. Le imprese che dipendono dalla spesa pubblica sono troppe, gli affari che dipendono da decisioni politiche sono troppi, sicché gestire la mediazione significa gestire affari. Con quel che segue. L’onestà personale è importante, naturalmente, e non è vero che tutti devono necessariamente corrompersi, ma va riassorbita la palude corruttiva, alimentata da troppo Stato nel mercato. Per farlo occorre privatizzare le gestioni e vendere ciò che non c’è ragione resti pubblico.
Poi c’è l’insensibilità. A Malinconico (che io sappia) non si contestano reati. Ove la procura decidesse di farlo egli, come chiunque altro, sarebbe da considerarsi innocente, almeno fino a eventuale condanna definitiva. Valeva la stessa cosa per Claudio Scajola, e lo scrivemmo anche per lui. Lo scriviamo per tutti. Ma Malinconico e Scajola hanno in comune l’incredibilità delle storie che raccontano e la impressionante mancanza di etica pubblica. L’idea che qualcuno ti paghi la casa o le vacanze è per loro accettabile, benché prudentemente occultata. Accettano l’idea di mostrarsi stupidi, una volta scoperti, pur di non fare i conti con la voragine apertasi fra il predicare e il razzolare, fra l’immagine che si ha di sé e quel che si è. Arrivano alle dimissioni non prendendo atto di un proprio errore, ma arrendendosi davanti all’impossibilità di non darle. Chiedo loro scusa se li ho citati, sinceramente. So bene che essi non sono delle eccezioni, ma parte di un vastissimo esercito, marciante verso l’uso della funzione pubblica per perseguire un proprio vantaggio, anziché del considerarsi al servizio della cosa pubblica. Servire lo Stato può portare ricchezza, sana e benedetta, se aiuta a formare le competenze che poi si vendono sul mercato, da privati, ma genera ricchezza opaca e nociva, se accumulata allettando il mercato con i propri poteri. In Italia si confondono i confini, alimentando collettiva insensibilità. Ciò pone le basi per l’inevitabilità di tali scene. Una condizione che addolora. E che il dimettersi non consola.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.