Il punto di Enrico Cisnetto
Il “Caso Englaro”
Dalla parte del “silenzioso terzo partito”di Enrico Cisnetto - 10 febbraio 2009
Caro Direttore, conosco la “linea” tenuta da Liberal sul “caso Englaro” e so che, almeno nella premessa e nella parte più direttamente relativa agli aspetti etici della vicenda, ti sto mandando un articolo “fuori linea”. Ma conto sulla tua riconosciuta ed apprezzata libertà di pensiero, e dunque ti ringrazio se lo vorrai pubblicare.
Sono molti quelli che, da settimane, mi sollecitano a prendere posizione sul “caso Englaro”. Finora ho evitato. Lo faccio, adesso, comunque a malincuore, non tanto perché nel frattempo Eluana è definitivamente trapassata, ma in virtù del fatto che la vicenda è diventata politica e persino istituzionale. Perché questa ritrosia? Perché, da un lato, la penso come Giampaolo Pansa – che sul Riformista ha confessato un sentimento che si risolve nell’essere un deterrente, e che non mi vergogno di ammettere sia anche mio: la paura della malattia, della sofferenza e in definitiva della morte – e perché, dall’altro, mi ripugna che un Paese allo sbando come questo non trovi mai la forza morale di occuparsi dei suoi problemi di fondo e però nello stesso tempo sia capace di sentirsi visceralmente coinvolto da fatti che gli sollecitino la morbosità – dalle sembianze sempre “buoniste”, per carità – verso le altrui questioni.
Quasi che fossimo preda di una sorta di dislessia collettiva, in virtù della quale il delitto di far marcire in un declino inesorabile il Paese da oltre tre lustri, lasciando ai nostri figli un’eredità per la quale ci malediranno – non appena avranno l’intelligenza di accorgersene o ci sbatteranno la faccia contro – è derubricato, ma in compenso ci si divide tra guelfi e ghibellini per una rispettabilissima ma pur sempre privatissima vicenda umana. Così ci si sente molto partecipi, direi orgogliosi di essere italiani, nell’aderire ai comitati, nel sottoscrivere le petizioni, nel creare social network di entrambi gli schieramenti che hanno la presunzione di essere stati “dalla parte di Eluana”, sia che la si reclamasse “viva” (?), sia che la si volesse “morta” (?). No, mi dispiace ma io non ci riesco, anzi non voglio partecipare a questo “gioco di società” con cui tutti – gli uni e gli altri delle due parti – si lavano la coscienza di cattivi genitori, di cittadini ignavi e imbelli, di classe dirigente da quattro soldi (in tutti i sensi). No.
E non è ponziopilatismo o cerchiobottismo, il mio. Semmai mi ritrovo perfettamente in quel “silenzioso terzo partito” di cui parla Angelo Panebianco sul Corriere della Sera. E’ che, da una parte, ho gerarchie “politiche” nella mia testa, cui non voglio abdicare, che mi fanno dire quanto sia folle un paese che per settimane, anzi mesi, abbia un’agenda delle priorità in cui il “particolare” – per quanto nobile, come in questo caso, che peraltro è un’eccezione – prevale in modo schiacciante sul “generale”. E dall’altra, trovo che – come ha mirabilmente detto il filosofo (agnostico come me) Emanuele Severino in un’intervista al Corriere della Sera – siamo stati di fronte a due “violenze”, a due forzature, a due fondamentalismi, al cospetto dei quali è opportuno usare la ragione critica anziché la pretesa della verità assoluta. Ha detto Sergio Givone, ordinario di Estetica a Firenze, che la vicenda si è ridotta ad essere pura ideologia, e l’ideologia uccide l’evoluzione di un pensiero, la riflessione, la critica. Sono totalmente d’accordo: il sonno della ragione genera mostri. E, infatti, siamo stati capaci, intorno ad un povero corpo che giaceva “morto” da 17 anni ma (sfortunatamente) privo delle condizioni formali della sepoltura fino a ieri, di lacerare ulteriormente una società già frantumata da spinte egoistiche di ogni genere, finendo per sollecitare non la sensibilità etica che entrambi gli schieramenti sbandierano ma uno schematico senso di appartenenza che non può che mortificare la coscienza, dei singoli come quella collettiva.
Se c’è una cosa raccapricciante di questa vicenda è che sulle morte spoglie non trapassate di Eluana prima e persino sul suo cadavere ora si sono sfidati due fondamentalismi. Parimenti deprecabili. Non è forse fondamentalismo quello che ha spinto tanta parte del mondo cattolico – più il vertice che la base, mi pare – a parlare di “omicidio”, sia preventivamente che a caldo? Non c’è forse presunzione in chi ha ritenuto di poter giudicare, sia sul piano morale che medico, la situazione di quella poveretta? Come vanno chiamati coloro che hanno speculato sul colpo di tosse, sul movimento degli occhi, persino sulle mestruazioni che hanno fatto immaginare Eluana fertile, e si sono detti sicuri che fosse viva? E non è ripugnante veder trattata la famiglia, e il padre in particolare, come degli assassini o, nel migliore dei casi, dei malati di protagonismo? E l’ipocrisia che induce a far finta di non sapere che per un caso che diventa pubblico ci sono migliaia di eutanasie praticate col concorso e/o la consapevolezza di tutti quei protagonisti (parenti, medici, infermieri, suore, dirigenti sanitari, ecc.) che oggi si sono divisi in due squadre, come la vogliamo chiamare? Parimenti, non sono forse fondamentalisti coloro che mostrano sicurezze scientiste? Quelli che hanno preteso di spiegarti in quali condizioni “scientifiche” si svolgesse lo stato vegetativo di Eluana (e degli altri nelle sue condizioni), quando è evidente che sono più le cose che non sappiamo rispetto a quelle che conosciamo con relativa certezza, non sono forse speculari a coloro che sono detti sicuri che quella ragazza fosse viva? Non è pura ideologia lasciarsi andare a editti morali secondo cui da una parte c’è il fideismo e dall’altra il sapere? Perché tanti laici dimenticano che l’essenza della laicità è la coltivazione del dubbio? E quelli che, come me, riconoscono al padre di Eluana di essere più di ogni altra persona nella posizione di prendere una decisione, e apprezzano il fatto che egli abbia voluto sollevare un tema d’interesse generale come quello del testamento biologico rendendo pubblica una vicenda altrimenti più che privata, non hanno la sensazione che si sia esagerato, che si sia superato il confine, finendo così col portare acqua al mulino della contrapposizione ideologica?
Come sostiene Severino, considerato che ci muoviamo nel campo delle ipotesi – perché nessuno può davvero dire cosa Eluana sentisse, cosa provasse, se avesse o meno coscienza – sarebbe stato più che mai opportuno evitare di “dare per scontato”. Intanto perché chi, come me, è favorevole all’eutanasia, non è detto debba necessariamente essere favorevole – e infatti io non lo sono – a questa forma di morte ipocrita ed inumana derivante da una sentenza e praticata con la progressiva disidratazione (che senso ha non usare un’iniezione letale?). E poi perché si fatica a credere che una tale mobilitazione dall’una e dall’altra parte dipenda dal fatto che ci fosse un esercito di altruisti grondanti amore per Eluana, dato che è proprio in nome dell’amore per quella creatura che si è chiesto tanto la sua morte definitiva quanto la sua permanenza nello stato vegetativo in cui era da 17 anni. E invece proprio la violenza delle tesi contrapposte ci dice che siamo finiti in ben altro campo rispetto a quello dell’amore per il prossimo.
E siccome il “caso Eluana” si è – tristemente ma anche fortunatamente – chiuso, e dato che aveva comunque già da giorni lasciato il campo a ben altre risvolti – legislativi, politici e istituzionali – sarà bene andare oltre. Il che significa entrare nel merito di almeno tre diverse, seppure intrecciate, problematiche. La prima riguarda la legge sul testamento biologico, che colpevolmente la classe politica non è stata capace di produrre nonostante sia da anni all’ordine del giorno in Parlamento.
Io penso che questa dovrebbe essere ispirata ad un principio fondamentale: la sacralità della vita consiste nel dare la libertà a ciascuno di usarla come crede. Quindi una legge dovrebbe stabilire che: 1. il “diritto alla vita” appartiene a ciascun titolare della vita stessa, che è libero di delegarlo al suo Dio (se lo ha), o di esercitarlo secondo i propri convincimenti, mentre nessuno ha giurisdizione, per alcun motivo, sulla vita altrui; 2. avere un diritto implica la facoltà di rinunciarvi, in questo caso anche fino al suicidio, ma riconoscere il “diritto al suicidio” non significa che sia cosa lecita sempre e comunque aiutare i suicidi ad usufruire del loro diritto; 3. ma se un malato sottoposto a grandi sofferenze fisiche e psicologiche, e al quale la medicina non può offrire ragionevoli speranze di guarigione, nel pieno possesso delle sue facoltà decide di chiedere di essere aiutato a morire, ha il diritto di ricevere gli interventi necessari; 4. altresì, è concesso a chi fosse in salute indicare per iscritto come ci si dovrebbe comportare nel caso venisse a trovarsi in certe condizioni estreme, come per esempio lo stato vegetativo; 5. la legge deve altresì prevedere in quali circostanze – molto restrittive – medici e familiari possono decidere in nome e per conto di una persona incapace di intendere e di volere, fermo restando il diritto-dovere dello Stato di evitare eventuali abusi. La seconda questione è relativa alla scelta del Governo di intervenire e al conflitto istituzionale che si è aperto con il Presidente della Repubblica. Anche qui occorre leggere laicamente quanto è successo, perché il concorso di colpa appare evidente.
Da un lato, infatti, se è infondato negare il diritto dell’esecutivo ad intervenire perché è stata emessa una sentenza – si ha tutto il diritto di legiferare per correggerne gli effetti, anche se ciò vale per le condotte successive alla sua emanazione – dall’altro è palese che si sarebbe trattato di una legge ad personam e che sarebbe politicamente scorretto decretare o predisporre un disegno di legge che estrapoli una specifica fattispecie rimandando il resto ad una normativa complessiva che da anni giace in Parlamento. Tanto più lo sarebbe ora che Eluana è riposa in pace.
Quanto al profilo istituzionale della faccenda, partendo dal presupposto che il governo, per prassi, comunica prima al Quirinale quali decreti saranno adottati, ottenendo dal quale informalmente o un via libera o delle fondate obiezioni, se ne ricava che Berlusconi ha sbagliato ad insistere di fronte ad un annunciato diniego, mentre Napolitano ha sbagliato ad inviare la lettera, formalizzando l’esercizio di un potere preventivo che la Costituzione non gli assegna e che la prassi vuole essere solo per le “vie brevi”.
Nello stesso tempo, è senza precedenti che il presidente del Consiglio “convochi” le camere, nel senso di indicare lui tempi e modi dell’approvazione parlamentare del decreto trasformato in ddl, e per di più al fine di “aggirare” le prerogative del Capo dello Stato – correttamente esercitate quando ha opposto il suo rifiuto a promulgare il decreto successivamente alla sua approvazione in Consiglio dei ministri – e rendere di fatto nulla “quella” sentenza. Come si vede, ce n’è abbastanza per procurare ferite non facilmente sanabili alle istituzioni e per rendere ancor più debole lo Stato di diritto, già fragile, cioè le fondamenta stesse della democrazia e della convivenza civile.
Valori, questi, che – giustamente – non si vollero sacrificare, per esempio, nel caso del ricatto delle Brigate Rosse sulla vita di Aldo Moro. Inoltre, come ha ricordato Stefano Folli sul Sole 24 Ore, per molti decenni nel dopoguerra, anche quando si sono affrontati temi laceranti come il divorzio e l’aborto, la classe politica nel suo insieme ha saputo garantire il necessario equilibrio tra laici e cattolici, evitando guerre di religione – significativo è il disincantato scetticismo con cui Giulio Andreotti ha commentato in queste ore la vicenda Englaro – e trovando sempre un punto di mediazione onorevole tra la necessaria difesa della laicità dello Stato e il giusto riconoscimento al ruolo e alla presenza della Chiesa Cattolica in Italia: beni preziosi, questi, che ora rischiano colpevolmente di andare perduti.
Dunque, chi si è assunto la responsabilità di produrre tali vulnus sarà presto o tardi chiamato a risponderne, e almeno la storia se non la politica corrente s’incaricherà di giudicare con la severità che una così grave colpa merita. Ma, come se non bastasse, c’è un’altra questione politica che questa maledetta vicenda ha aperto: il superamento della Costituzione, e in particolare della forma parlamentare del nostro ordinamento. Ora, non sarò certo io, che come presidente di Società Aperta da anni ho lanciato la proposta di una revisione della Carta fondamentale addirittura attraverso la convocazione di un’Assemblea Costituente, a scandalizzarmi per l’annuncio di una tale intenzione.
Ma un conto è la riscrittura delle “regole del gioco” in un contesto rifondativo e avendo come obiettivo la chiusura dell’infausta esperienza della Seconda Repubblica – compreso il “pensionamento” politico della sua classe dirigente – altro è un pubblico dileggio della Costituzione e il suo superamento “di fatto” come presupposto per un cambiamento a colpi di maggioranza, come peraltro tanto il centro-destra quanto ancor prima il centro-sinistra hanno sciaguratamente fatto in questi anni. Un conto è giudicare la Costituzione migliorabile, altro è definirla “filosovietica” dopo averci giurato sopra per trarne la legittimazione del ruolo di premier. Ma ancor più pericolosa è la forzatura che, anche attraverso una tematica così emotivamente forte come quella relativa alla morte, si è deciso di produrre per superare il regime parlamentare e accedere verosimilmente ad una forma non meglio definita di presidenzialismo. Ovviamente, non mi sfugge che da tempo sono all’ordine del giorno tre problemi cui occorre dare risposta: fornire all’esecutivo maggiori strumenti di governo; snellire il lavoro del Parlamento, riducendo tempi e procedure; superare il bicameralismo perfetto, diversificando le funzioni delle due camere. Ma il fondamento di queste esigenze – che dovrebbero trovare soddisfazione nell’ambito di una generale revisione degli assetti istituzionali da decidersi appunto in un’Assemblea Costituente – non significa che siano accettabili tanto il continuo esercizio della decretazione d’urgenza e il reiterato uso dello strumento della fiducia, abitudini giustamente deprecate dal presidente della Camera Gianfranco Fini, quanto il tentativo di ridurre il ruolo del Quirinale, come ha denunciato Michele Ainis, da “sentinella” a “maggiordomo” del governo riducendone i poteri sostanziali ad una funzione meramente notarile. Già in questi anni si è introdotto surrettiziamente una sorta di “semipresidenzialismo all’italiana” – con il concorso e la responsabilità di tutti i protagonisti della vita politica, a cominciare dai nemici di Berlusconi – facendo credere agli italiani che indicando nella scheda elettorale il premier insieme con il partito prescelto si votava direttamente il capo del governo, cosa niente affatto prevista dalla Costituzione. Ora si vuole andare oltre, e per di più in un clima da guerra civile.
Tutto questo è inaccettabile e pericoloso, tanto più per un paese colpito da un grave recessione che fa venire al pettine tutti i nodi irrisolti di un lungo quanto inesorabile declino. Sarà bene che se ne rendano conti tutti i protagonisti, diretti e involontari, di questa sciagurata vicenda: chi siede in parlamento, cui si chiede un sussulto di dignità e di amor proprio; la Santa Sede, che dovrebbe valutare con maggiore attenzione – come sembra suggerirle Andreotti – i pro e i contro di questa esasperata situazione; chi manifesta con toni sempre più aspri da entrambe le barricate; le forze politiche, che dovrebbero finalmente capire quanto sia pericoloso lacerare il Paese su temi etici. E pure i media, cui spetta il compito decisivo di ridurre il rumore di fondo di questo “scontro di inciviltà”.
Sono molti quelli che, da settimane, mi sollecitano a prendere posizione sul “caso Englaro”. Finora ho evitato. Lo faccio, adesso, comunque a malincuore, non tanto perché nel frattempo Eluana è definitivamente trapassata, ma in virtù del fatto che la vicenda è diventata politica e persino istituzionale. Perché questa ritrosia? Perché, da un lato, la penso come Giampaolo Pansa – che sul Riformista ha confessato un sentimento che si risolve nell’essere un deterrente, e che non mi vergogno di ammettere sia anche mio: la paura della malattia, della sofferenza e in definitiva della morte – e perché, dall’altro, mi ripugna che un Paese allo sbando come questo non trovi mai la forza morale di occuparsi dei suoi problemi di fondo e però nello stesso tempo sia capace di sentirsi visceralmente coinvolto da fatti che gli sollecitino la morbosità – dalle sembianze sempre “buoniste”, per carità – verso le altrui questioni.
Quasi che fossimo preda di una sorta di dislessia collettiva, in virtù della quale il delitto di far marcire in un declino inesorabile il Paese da oltre tre lustri, lasciando ai nostri figli un’eredità per la quale ci malediranno – non appena avranno l’intelligenza di accorgersene o ci sbatteranno la faccia contro – è derubricato, ma in compenso ci si divide tra guelfi e ghibellini per una rispettabilissima ma pur sempre privatissima vicenda umana. Così ci si sente molto partecipi, direi orgogliosi di essere italiani, nell’aderire ai comitati, nel sottoscrivere le petizioni, nel creare social network di entrambi gli schieramenti che hanno la presunzione di essere stati “dalla parte di Eluana”, sia che la si reclamasse “viva” (?), sia che la si volesse “morta” (?). No, mi dispiace ma io non ci riesco, anzi non voglio partecipare a questo “gioco di società” con cui tutti – gli uni e gli altri delle due parti – si lavano la coscienza di cattivi genitori, di cittadini ignavi e imbelli, di classe dirigente da quattro soldi (in tutti i sensi). No.
E non è ponziopilatismo o cerchiobottismo, il mio. Semmai mi ritrovo perfettamente in quel “silenzioso terzo partito” di cui parla Angelo Panebianco sul Corriere della Sera. E’ che, da una parte, ho gerarchie “politiche” nella mia testa, cui non voglio abdicare, che mi fanno dire quanto sia folle un paese che per settimane, anzi mesi, abbia un’agenda delle priorità in cui il “particolare” – per quanto nobile, come in questo caso, che peraltro è un’eccezione – prevale in modo schiacciante sul “generale”. E dall’altra, trovo che – come ha mirabilmente detto il filosofo (agnostico come me) Emanuele Severino in un’intervista al Corriere della Sera – siamo stati di fronte a due “violenze”, a due forzature, a due fondamentalismi, al cospetto dei quali è opportuno usare la ragione critica anziché la pretesa della verità assoluta. Ha detto Sergio Givone, ordinario di Estetica a Firenze, che la vicenda si è ridotta ad essere pura ideologia, e l’ideologia uccide l’evoluzione di un pensiero, la riflessione, la critica. Sono totalmente d’accordo: il sonno della ragione genera mostri. E, infatti, siamo stati capaci, intorno ad un povero corpo che giaceva “morto” da 17 anni ma (sfortunatamente) privo delle condizioni formali della sepoltura fino a ieri, di lacerare ulteriormente una società già frantumata da spinte egoistiche di ogni genere, finendo per sollecitare non la sensibilità etica che entrambi gli schieramenti sbandierano ma uno schematico senso di appartenenza che non può che mortificare la coscienza, dei singoli come quella collettiva.
Se c’è una cosa raccapricciante di questa vicenda è che sulle morte spoglie non trapassate di Eluana prima e persino sul suo cadavere ora si sono sfidati due fondamentalismi. Parimenti deprecabili. Non è forse fondamentalismo quello che ha spinto tanta parte del mondo cattolico – più il vertice che la base, mi pare – a parlare di “omicidio”, sia preventivamente che a caldo? Non c’è forse presunzione in chi ha ritenuto di poter giudicare, sia sul piano morale che medico, la situazione di quella poveretta? Come vanno chiamati coloro che hanno speculato sul colpo di tosse, sul movimento degli occhi, persino sulle mestruazioni che hanno fatto immaginare Eluana fertile, e si sono detti sicuri che fosse viva? E non è ripugnante veder trattata la famiglia, e il padre in particolare, come degli assassini o, nel migliore dei casi, dei malati di protagonismo? E l’ipocrisia che induce a far finta di non sapere che per un caso che diventa pubblico ci sono migliaia di eutanasie praticate col concorso e/o la consapevolezza di tutti quei protagonisti (parenti, medici, infermieri, suore, dirigenti sanitari, ecc.) che oggi si sono divisi in due squadre, come la vogliamo chiamare? Parimenti, non sono forse fondamentalisti coloro che mostrano sicurezze scientiste? Quelli che hanno preteso di spiegarti in quali condizioni “scientifiche” si svolgesse lo stato vegetativo di Eluana (e degli altri nelle sue condizioni), quando è evidente che sono più le cose che non sappiamo rispetto a quelle che conosciamo con relativa certezza, non sono forse speculari a coloro che sono detti sicuri che quella ragazza fosse viva? Non è pura ideologia lasciarsi andare a editti morali secondo cui da una parte c’è il fideismo e dall’altra il sapere? Perché tanti laici dimenticano che l’essenza della laicità è la coltivazione del dubbio? E quelli che, come me, riconoscono al padre di Eluana di essere più di ogni altra persona nella posizione di prendere una decisione, e apprezzano il fatto che egli abbia voluto sollevare un tema d’interesse generale come quello del testamento biologico rendendo pubblica una vicenda altrimenti più che privata, non hanno la sensazione che si sia esagerato, che si sia superato il confine, finendo così col portare acqua al mulino della contrapposizione ideologica?
Come sostiene Severino, considerato che ci muoviamo nel campo delle ipotesi – perché nessuno può davvero dire cosa Eluana sentisse, cosa provasse, se avesse o meno coscienza – sarebbe stato più che mai opportuno evitare di “dare per scontato”. Intanto perché chi, come me, è favorevole all’eutanasia, non è detto debba necessariamente essere favorevole – e infatti io non lo sono – a questa forma di morte ipocrita ed inumana derivante da una sentenza e praticata con la progressiva disidratazione (che senso ha non usare un’iniezione letale?). E poi perché si fatica a credere che una tale mobilitazione dall’una e dall’altra parte dipenda dal fatto che ci fosse un esercito di altruisti grondanti amore per Eluana, dato che è proprio in nome dell’amore per quella creatura che si è chiesto tanto la sua morte definitiva quanto la sua permanenza nello stato vegetativo in cui era da 17 anni. E invece proprio la violenza delle tesi contrapposte ci dice che siamo finiti in ben altro campo rispetto a quello dell’amore per il prossimo.
E siccome il “caso Eluana” si è – tristemente ma anche fortunatamente – chiuso, e dato che aveva comunque già da giorni lasciato il campo a ben altre risvolti – legislativi, politici e istituzionali – sarà bene andare oltre. Il che significa entrare nel merito di almeno tre diverse, seppure intrecciate, problematiche. La prima riguarda la legge sul testamento biologico, che colpevolmente la classe politica non è stata capace di produrre nonostante sia da anni all’ordine del giorno in Parlamento.
Io penso che questa dovrebbe essere ispirata ad un principio fondamentale: la sacralità della vita consiste nel dare la libertà a ciascuno di usarla come crede. Quindi una legge dovrebbe stabilire che: 1. il “diritto alla vita” appartiene a ciascun titolare della vita stessa, che è libero di delegarlo al suo Dio (se lo ha), o di esercitarlo secondo i propri convincimenti, mentre nessuno ha giurisdizione, per alcun motivo, sulla vita altrui; 2. avere un diritto implica la facoltà di rinunciarvi, in questo caso anche fino al suicidio, ma riconoscere il “diritto al suicidio” non significa che sia cosa lecita sempre e comunque aiutare i suicidi ad usufruire del loro diritto; 3. ma se un malato sottoposto a grandi sofferenze fisiche e psicologiche, e al quale la medicina non può offrire ragionevoli speranze di guarigione, nel pieno possesso delle sue facoltà decide di chiedere di essere aiutato a morire, ha il diritto di ricevere gli interventi necessari; 4. altresì, è concesso a chi fosse in salute indicare per iscritto come ci si dovrebbe comportare nel caso venisse a trovarsi in certe condizioni estreme, come per esempio lo stato vegetativo; 5. la legge deve altresì prevedere in quali circostanze – molto restrittive – medici e familiari possono decidere in nome e per conto di una persona incapace di intendere e di volere, fermo restando il diritto-dovere dello Stato di evitare eventuali abusi. La seconda questione è relativa alla scelta del Governo di intervenire e al conflitto istituzionale che si è aperto con il Presidente della Repubblica. Anche qui occorre leggere laicamente quanto è successo, perché il concorso di colpa appare evidente.
Da un lato, infatti, se è infondato negare il diritto dell’esecutivo ad intervenire perché è stata emessa una sentenza – si ha tutto il diritto di legiferare per correggerne gli effetti, anche se ciò vale per le condotte successive alla sua emanazione – dall’altro è palese che si sarebbe trattato di una legge ad personam e che sarebbe politicamente scorretto decretare o predisporre un disegno di legge che estrapoli una specifica fattispecie rimandando il resto ad una normativa complessiva che da anni giace in Parlamento. Tanto più lo sarebbe ora che Eluana è riposa in pace.
Quanto al profilo istituzionale della faccenda, partendo dal presupposto che il governo, per prassi, comunica prima al Quirinale quali decreti saranno adottati, ottenendo dal quale informalmente o un via libera o delle fondate obiezioni, se ne ricava che Berlusconi ha sbagliato ad insistere di fronte ad un annunciato diniego, mentre Napolitano ha sbagliato ad inviare la lettera, formalizzando l’esercizio di un potere preventivo che la Costituzione non gli assegna e che la prassi vuole essere solo per le “vie brevi”.
Nello stesso tempo, è senza precedenti che il presidente del Consiglio “convochi” le camere, nel senso di indicare lui tempi e modi dell’approvazione parlamentare del decreto trasformato in ddl, e per di più al fine di “aggirare” le prerogative del Capo dello Stato – correttamente esercitate quando ha opposto il suo rifiuto a promulgare il decreto successivamente alla sua approvazione in Consiglio dei ministri – e rendere di fatto nulla “quella” sentenza. Come si vede, ce n’è abbastanza per procurare ferite non facilmente sanabili alle istituzioni e per rendere ancor più debole lo Stato di diritto, già fragile, cioè le fondamenta stesse della democrazia e della convivenza civile.
Valori, questi, che – giustamente – non si vollero sacrificare, per esempio, nel caso del ricatto delle Brigate Rosse sulla vita di Aldo Moro. Inoltre, come ha ricordato Stefano Folli sul Sole 24 Ore, per molti decenni nel dopoguerra, anche quando si sono affrontati temi laceranti come il divorzio e l’aborto, la classe politica nel suo insieme ha saputo garantire il necessario equilibrio tra laici e cattolici, evitando guerre di religione – significativo è il disincantato scetticismo con cui Giulio Andreotti ha commentato in queste ore la vicenda Englaro – e trovando sempre un punto di mediazione onorevole tra la necessaria difesa della laicità dello Stato e il giusto riconoscimento al ruolo e alla presenza della Chiesa Cattolica in Italia: beni preziosi, questi, che ora rischiano colpevolmente di andare perduti.
Dunque, chi si è assunto la responsabilità di produrre tali vulnus sarà presto o tardi chiamato a risponderne, e almeno la storia se non la politica corrente s’incaricherà di giudicare con la severità che una così grave colpa merita. Ma, come se non bastasse, c’è un’altra questione politica che questa maledetta vicenda ha aperto: il superamento della Costituzione, e in particolare della forma parlamentare del nostro ordinamento. Ora, non sarò certo io, che come presidente di Società Aperta da anni ho lanciato la proposta di una revisione della Carta fondamentale addirittura attraverso la convocazione di un’Assemblea Costituente, a scandalizzarmi per l’annuncio di una tale intenzione.
Ma un conto è la riscrittura delle “regole del gioco” in un contesto rifondativo e avendo come obiettivo la chiusura dell’infausta esperienza della Seconda Repubblica – compreso il “pensionamento” politico della sua classe dirigente – altro è un pubblico dileggio della Costituzione e il suo superamento “di fatto” come presupposto per un cambiamento a colpi di maggioranza, come peraltro tanto il centro-destra quanto ancor prima il centro-sinistra hanno sciaguratamente fatto in questi anni. Un conto è giudicare la Costituzione migliorabile, altro è definirla “filosovietica” dopo averci giurato sopra per trarne la legittimazione del ruolo di premier. Ma ancor più pericolosa è la forzatura che, anche attraverso una tematica così emotivamente forte come quella relativa alla morte, si è deciso di produrre per superare il regime parlamentare e accedere verosimilmente ad una forma non meglio definita di presidenzialismo. Ovviamente, non mi sfugge che da tempo sono all’ordine del giorno tre problemi cui occorre dare risposta: fornire all’esecutivo maggiori strumenti di governo; snellire il lavoro del Parlamento, riducendo tempi e procedure; superare il bicameralismo perfetto, diversificando le funzioni delle due camere. Ma il fondamento di queste esigenze – che dovrebbero trovare soddisfazione nell’ambito di una generale revisione degli assetti istituzionali da decidersi appunto in un’Assemblea Costituente – non significa che siano accettabili tanto il continuo esercizio della decretazione d’urgenza e il reiterato uso dello strumento della fiducia, abitudini giustamente deprecate dal presidente della Camera Gianfranco Fini, quanto il tentativo di ridurre il ruolo del Quirinale, come ha denunciato Michele Ainis, da “sentinella” a “maggiordomo” del governo riducendone i poteri sostanziali ad una funzione meramente notarile. Già in questi anni si è introdotto surrettiziamente una sorta di “semipresidenzialismo all’italiana” – con il concorso e la responsabilità di tutti i protagonisti della vita politica, a cominciare dai nemici di Berlusconi – facendo credere agli italiani che indicando nella scheda elettorale il premier insieme con il partito prescelto si votava direttamente il capo del governo, cosa niente affatto prevista dalla Costituzione. Ora si vuole andare oltre, e per di più in un clima da guerra civile.
Tutto questo è inaccettabile e pericoloso, tanto più per un paese colpito da un grave recessione che fa venire al pettine tutti i nodi irrisolti di un lungo quanto inesorabile declino. Sarà bene che se ne rendano conti tutti i protagonisti, diretti e involontari, di questa sciagurata vicenda: chi siede in parlamento, cui si chiede un sussulto di dignità e di amor proprio; la Santa Sede, che dovrebbe valutare con maggiore attenzione – come sembra suggerirle Andreotti – i pro e i contro di questa esasperata situazione; chi manifesta con toni sempre più aspri da entrambe le barricate; le forze politiche, che dovrebbero finalmente capire quanto sia pericoloso lacerare il Paese su temi etici. E pure i media, cui spetta il compito decisivo di ridurre il rumore di fondo di questo “scontro di inciviltà”.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.