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L'editoriale di TerzaRepubblica

Il boomerang della decadenza

Che errore il voto palese su Berlusconi. A pagarne il prezzo sarà il governo

02 novembre 2013

Un errore concettuale e un calcolo politico sbagliato. La scelta di rendere palese il voto sulla decadenza da senatore di Silvio Berlusconi si iscrive nel vasto quadro delle sciocchezze commesse dalla sinistra in questi vent’anni di berlusconismo. Non contento di aver forzato i tempi del voto in giunta – quando invece sarebbe stato saggio non offrire l’ennesima occasione al Cavaliere di vittimizzarsi, accettando la richiesta di chiedere lumi alla suprema Corte sulla congruità della legge Severino – il Pd ora ha scelto di imboccare la strada di cambiare in corsa le regole sul voto segreto. E lo ha fatto non solo e non tanto per raggiungere più facilmente l’agognato obiettivo di togliersi di mezzo l’odiato nemico – cosa che succederà comunque – quanto per evitare che all’ombra del segreto dell’urna si consumassero giochi e giochetti interni. Peccato, però, che così facendo abbia commesso due esiziali errori. Il primo è quello di aver tradito un principio fondante della democrazia rappresentativa, che è appunto quello di poter votare in certe circostanze – di certo quelle relative alle persone – al riparo dalla retorica della trasparenza, dietro cui si cela la possibilità dei capi dei partiti di controllare il comportamento dei singoli parlamentari. E considerato il tasso di “padronalità” dei partiti italici, trattasi di una necessità estrema per noi. La sinistra seria ha sempre sostenuto la tesi che in tutti i parlamenti democratici il voto segreto è presidio di libertà; perché ora se ne è dimenticata? L’unica risposta possibile è che la sinistra è diventata molto meno seria di un tempo.

Il secondo errore è di natura politica: il voto palese aiuta Berlusconi, non il contrario. Considerato che la partita della sua decadenza era ed è comunque persa, per lui quella più importante riguarda la possibilità di andare al più presto alle elezioni facendo cadere il governo. Ed è proprio su questo terreno che il Pd ha gli ha regalato punti preziosi. Perché sono evidenti le due conseguenze del voto palese. Primo: le colombe del Pdl saranno inevitabilmente costrette a votare contro la decadenza, e questa sarà per Berlusconi la migliore delle premesse per riassorbire senza danno Alfano e i suoi dentro la nuova Forza Italia. E a sua volta questo consentirà al Cavaliere di riprovarci a buttare giù Letta, con molte più chances di qualche settimana fa. Secondo: un voto a favore della decadenza a scrutinio segreto sarebbe politicamente molto più pesante per Berlusconi che non con voto palese. Risultato: il governo Letta è di nuovo sotto tiro, la stabilità politica faticosamente raggiunta e difesa lascia ancora una volta il passo all’instabilità. Sarà contento chi, nel Pd, fa il tifo perché il centro-destra faccia saltare il banco.

Come se ne esce? A noi di TerzaRepubblica interessa poco o nulla del destino del senatore Berlusconi. Ci poniamo il problema, invece, della tenuta non solo del governo Letta, ma delle stesse “larghe intese”, che nel quadro attuale sono sia l’unica formula politica praticabile sia la migliore delle condizioni possibili, almeno potenzialmente, per fare le grandi riforme strutturali di cui il Paese ha bisogno. Ma qui casca l’asino. Lo abbiamo già detto e lo ripetiamo: l’eccesso di prudenza con cui fin qui il governo si è mosso è la principale sponda su cui hanno potuto giocare i disfattisti annidati dentro sia il Pd che il Pdl. La cura che un governo di profilo emergenziale come è per definizione quello delle larghe intese, deve somministrare ad un Paese lungodegente non può infatti essere né moderata né graduale. Sia chiaro, questo non significa mettere in discussione l’azione di risanamento finanziario fin qui realizzata, ma semmai modificarne il profilo in modo da spostarla dalla riduzione del deficit all’abbattimento del debito, cambiarne il segno passando da “più tasse” a “meno spese” e accentuarne la dimensione in modo da ricavare risorse per investimenti finalizzati alla crescita. Ha dunque ragione il ministro Saccomanni quando ammonisce che gli spazi sono stretti e che se si dovesse fare la somma di tutte le modifiche alla legge di stabilità ipotizzate in questi giorni sforeremmo ampiamente. Ma nello stesso tempo ha torto non lui, ma l’intero governo a non porre la sua rissosa maggioranza – di “vaste diffidenze” più che di larghe intese – di fronte ad un programma di riforme strutturali che appunto cambi la fisionomia complessiva della politica economica. E non per ridurre, ma semmai per accentuare e velocizzare il risanamento. Anche perché si continua a far finta di niente, ma dal 2015 sarà obbligatorio tagliare ogni anno un ventesimo del debito pubblico eccedente la quota del 60% del pil.

È questo, tra l’altro, l’unico modo per sfuggire all’asfissiante pressing che tanto il Pdl, più platealmente, quanto il Pd, in modo più surrettizio, stanno facendo alla manovra, pressing che sicuramente si manifesterà in tutta la sua pericolosità in parlamento. Così come è la maniera migliore per rispondere alle critiche piovute da diverse istituzioni, in taluni casi giuste – quelle di Istat e Bankitalia sull’eccesso di ottimismo nelle previsioni macro-economiche contenute nella legge di stabilità – in altri del tutto fuori luogo, come quella sulla mancata equità della manovra arrivata dalla Corte dei Conti. Rilievo, quest’ultimo, sbagliato nel merito perché non sta scritto da nessuna parte, tanto meno sui libri contabili che dovrebbero contenere numeri compatibili con una spesa pubblica non assistenziale, che la platea dei beneficiari del taglio del cuneo fiscale debba essere fatta da tutti gli italiani, senza distinzione alcuna. E sbagliato nel metodo, visto che non spetta al sempre più inutile organismo di controllo dei conti (sic!) il compito di giudicare il tasso di equità delle scelte di governo. Detto questo, che lo sgravio porti nelle buste paga 10 euro, come stima l’Istat, o qualche spicciolo in più, fa poca differenza: rimane una manovretta insignificante, che non sposta di un millimetro il livello dei consumi e dunque la domanda interna (a questo proposito è significativo il dato fornito dall’Acri, secondo cui il tasso di risparmio degli italiani sarebbe aumentato di un punto, a conferma che il taglio che le famiglie hanno dato ai propri consumi è ormai strutturale).

Forse sarebbe utile che Letta chiamasse i suoi ministri e qualche interlocutore della maggioranza ad un bel seminario a porte chiuse con qualche economista che abbia la vista lunga. Così, giusto per avere idee un po’ meno stereotipate e un po’ più di coraggio. Così, se il governo cadrà per colpa di Berlusconi e dei Pd che giocano di sponda con lui, almeno sarà chiaro che tutta la responsabilità sta solo lì.

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