Negli Usa il Presidente è il capo riconosciuto
Il bipolarismo dei conservatori
Democrazia italiana e americana a confronto: loro guardano al futuro, noi nodi Davide Giacalone - 02 febbraio 2006
Nel suo sesto rapporto sullo stato dell’Unione il Presidente Bush, in grande crisi di popolarità, parla all’America della missione del mondo, dei rischi legati ad un ripiegamento isolazionista, ribadisce che la partita irachena, e riguardante tutta l’area, non può e non deve chiudersi con un pareggio, che la vittoria della democrazia deve essere piena. Al tempo stesso, lui, proveniente da una famiglia di petrolieri, ben consapevole di star parlando di un quadrante geopolitico che comprende i grandi produttori di petrolio, segnala agli statunitensi il pericolo di una eccessiva dipendenza dall’oro nero, affermando la volontà del governo di investire in nuove fonti d’energia, da quelle rinnovabili a quella nucleare, spingendo la ricerca scientifica e lo sfruttamento di tutto ciò che è a portata di mano.
Insomma, Gorge W. Bush parla del futuro ad un Paese che guarda al futuro, e lo fa avendo iniziato, fra molti malumori e disaffezioni, il cammino che lo porterà ad uscire di scena. Quest’anno ci saranno le elezioni di medio termine, subito dopo l’America comincerà ad interrogarsi su chi sarà il prossimo presidente.
C’è qualche cosa di straordinario, d’esaltante, in questo meccanismo istituzionale. Il Presidente in carica è nel pieno delle sue funzioni e dei suoi poteri, che sono vasti, ma il Paese guarda oltre, preparandosi, come spesso capita, a farne un’“anatra zoppa”, con un congresso ostile e la clessidra che va svuotandosi. Gli Usa si consegnano nelle mani del Presidente, ne fanno il loro leader ed il loro capo, ma questo può durare al massimo otto anni, poi si passa alle conferenze senza che esista la via del ritorno. Si vota ogni quattro anni, non solo teoricamente, ma anche praticamente il Presidente può essere silurato dopo il primo mandato, se questo avviene, però, è segno che gli Usa attraversano una crisi, se avviene ancora con il suo successore, vuol dire che la crisi è profonda, perché ad un leader, ad un capo, non possono essere concessi solo quattro anni, troppo pochi per qualsiasi missione. Ma più di otto sarebbero troppi, non perché la missione sia sempre compiuta, ma perché il rischio che si corre marmorizzando il potere è più alto del prezzo che si paga perdendo un buon capo.
Le dinamiche italiche sembrano costruite su opposti presupposti. Stiamo andando a votare dovendo decidere fra due leader che già si erano sfidati dieci anni fa. Uno dei due vincerà, ma già si scommette che durerà poco, sarà debole ed inefficace, a causa dell’eterogeneità della coalizione che lo sostiene. Da noi non si comincia a pensare al ricambio quando il leader arriva vicino alla fine, no, da noi se ne parla prima ancora che venga eletto. In ogni caso nessuno gli riconosce la qualifica di “capo”, e chi dovesse crederlo tale sarebbe catalogato come “servo”. Dati questi vincoli umani e temporali, data la precarietà eletta a garanzia di libertà, non c’è nessuno che si occupi di problemi la cui gittata cronologica supera gli interessi elettorali. Da qui le fregnacce farsesche che ci tocca sentire sui problemi energetici. Da qui il gran clangore delle spade elettoralistiche, salvo poi dover cercare con il lanternino le differenze programmatiche reali.
La democrazia funziona bene nella dialettica libera delle opinioni e degli interessi, nell’estrema chiarezza delle idee, e nella gran moderazione dei comportamenti. Da noi sopravvive, ma non produce governo perché si accompagna l’estremismo dei comportamenti alla fumosità delle idee ed al trasversalismo degli interessi. Fa schifo la classe politica, dalle nostre parti? Bella non è, ma anche negli Usa non è che sia un paradiso. Allora è il sistema istituzionale a far acqua? Funziona male, questo è sicuro, ma non è il sistema a far la differenza. E allora? Allora, forse, è un errore guardare alla politica come sudditi in attesa di regno, allora, forse, ogni Paese ha il governo che si merita, e se gli italiani berranno un brodino riscaldato è perché hanno perso forza e voglia di guardare al futuro e di sfidarlo con idee nuove. Si beccheranno un governo conservatore di destra o un governo conservatore di sinistra, per la semplice ragione che non sapendo più essere innovatori, non sanno far altro che fingersi conservatori.
Insomma, Gorge W. Bush parla del futuro ad un Paese che guarda al futuro, e lo fa avendo iniziato, fra molti malumori e disaffezioni, il cammino che lo porterà ad uscire di scena. Quest’anno ci saranno le elezioni di medio termine, subito dopo l’America comincerà ad interrogarsi su chi sarà il prossimo presidente.
C’è qualche cosa di straordinario, d’esaltante, in questo meccanismo istituzionale. Il Presidente in carica è nel pieno delle sue funzioni e dei suoi poteri, che sono vasti, ma il Paese guarda oltre, preparandosi, come spesso capita, a farne un’“anatra zoppa”, con un congresso ostile e la clessidra che va svuotandosi. Gli Usa si consegnano nelle mani del Presidente, ne fanno il loro leader ed il loro capo, ma questo può durare al massimo otto anni, poi si passa alle conferenze senza che esista la via del ritorno. Si vota ogni quattro anni, non solo teoricamente, ma anche praticamente il Presidente può essere silurato dopo il primo mandato, se questo avviene, però, è segno che gli Usa attraversano una crisi, se avviene ancora con il suo successore, vuol dire che la crisi è profonda, perché ad un leader, ad un capo, non possono essere concessi solo quattro anni, troppo pochi per qualsiasi missione. Ma più di otto sarebbero troppi, non perché la missione sia sempre compiuta, ma perché il rischio che si corre marmorizzando il potere è più alto del prezzo che si paga perdendo un buon capo.
Le dinamiche italiche sembrano costruite su opposti presupposti. Stiamo andando a votare dovendo decidere fra due leader che già si erano sfidati dieci anni fa. Uno dei due vincerà, ma già si scommette che durerà poco, sarà debole ed inefficace, a causa dell’eterogeneità della coalizione che lo sostiene. Da noi non si comincia a pensare al ricambio quando il leader arriva vicino alla fine, no, da noi se ne parla prima ancora che venga eletto. In ogni caso nessuno gli riconosce la qualifica di “capo”, e chi dovesse crederlo tale sarebbe catalogato come “servo”. Dati questi vincoli umani e temporali, data la precarietà eletta a garanzia di libertà, non c’è nessuno che si occupi di problemi la cui gittata cronologica supera gli interessi elettorali. Da qui le fregnacce farsesche che ci tocca sentire sui problemi energetici. Da qui il gran clangore delle spade elettoralistiche, salvo poi dover cercare con il lanternino le differenze programmatiche reali.
La democrazia funziona bene nella dialettica libera delle opinioni e degli interessi, nell’estrema chiarezza delle idee, e nella gran moderazione dei comportamenti. Da noi sopravvive, ma non produce governo perché si accompagna l’estremismo dei comportamenti alla fumosità delle idee ed al trasversalismo degli interessi. Fa schifo la classe politica, dalle nostre parti? Bella non è, ma anche negli Usa non è che sia un paradiso. Allora è il sistema istituzionale a far acqua? Funziona male, questo è sicuro, ma non è il sistema a far la differenza. E allora? Allora, forse, è un errore guardare alla politica come sudditi in attesa di regno, allora, forse, ogni Paese ha il governo che si merita, e se gli italiani berranno un brodino riscaldato è perché hanno perso forza e voglia di guardare al futuro e di sfidarlo con idee nuove. Si beccheranno un governo conservatore di destra o un governo conservatore di sinistra, per la semplice ragione che non sapendo più essere innovatori, non sanno far altro che fingersi conservatori.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.