Ma la recessione c’è ancora, o l’abbiamo superata?
Il bicchiere mezzo pieno della crescita
È ora di tagliare la spesa corrente e aumentare quella per investimentidi Enrico Cisnetto - 12 gennaio 2011
Ma la recessione c’è ancora, o l’abbiamo superata? Il videogame della crisi continua ad impazzare, come dice Tremonti e come fanno pensare molti indicatori economici, o hanno ragione gli ottimisti – partito a cui è da sempre iscritto Berlusconi e a cui si è ora aggiunto anche il governatore della Bce Trichet – a dire che la ripresa è più forte di quanto non si pensi?
E come dobbiamo giudicare l’andamento delle aste in cui ieri in Europa sono stati emessi una valanga di titoli di Stato, a cominciare da 7 miliardi di nostri Bot: bene perché il mercato ha assorbito tutte le emissioni, o male perché i tassi sono schizzati all’insù? Non sembri ponziopilatismo, ma hanno ragione i sostenitori di entrambe le tesi. Dipende di cosa parliamo. Se si fa riferimento all’economia mondiale nel suo complesso, l’aumento del pil del 4,8% segnala per il 2010 un andamento più che buono, in linea la crescita che c’era prima della crisi finanziaria del 2007 e la successiva recessione. Peccato che le economie tradizionali contribuiscano a questo risultato in misura modesta (il pil Usa cresce del 2,6%, poco più di quello giapponese, Eurolandia si attesta solo a +1,7%), mentre la gran parte del merito è ad appannaggio dell’Asia (la Cina chiude l’anno con oltre 10 punti di crescita), del Brasile, della Turchia, della Russia.
La dicono lunga anche le stime del Fondo Monetario, secondo cui la quota dell’area dell’euro nel pil mondiale, che nel 2000 era pari al 18%, a parità di potere d’acquisto nel 2015 scenderà al 13%, mentre nello stesso periodo la quota dei paesi emergenti asiatici passerà dal 15% al 29%. Tuttavia, Trichet non sbaglia quando vede anche nella vecchia Europa segnali confortanti. Basti pensare al risultato straordinario della Germania, che con un balzo del 3,7% recupera gran parte della ricchezza bruciata nel 2009 con la recessione e riesce ad affermarsi anche in quelle produzioni manifatturiere, come quella dell’auto, che altrove hanno difficoltà. Ma lo stesso numero uno della Bce non più tardi di un paio di giorni fa aveva lanciato un duro monito agli esecutivi europei, rei a suo dire di non fare tutto il necessario per coniugare il rigore nella gestione della finanza pubblica con lo sviluppo: “la Bce non sostituirà i governi irresponsabili”.
Che tradotto, in questo momento significa che Francoforte non andrà a vanti all’infinito a comprare sul mercato secondario le obbligazioni dei paesi a rischio default. Cosa che, insieme alla costituzione del fondo anti-crisi, finora ha evitato il crack non solo della Grecia, dell’Irlanda o del Portogallo, ma anche delle loro banche commerciali. Il vero problema, però, è che nonostante tutto la speculazione è sempre in agguato, e costringe i ministeri del Tesoro dei vari paesi presi di mira a pagare tassi d’interesse sui loro debiti che stanno diventando insostenibili. Si prenda il caso dell’Italia: ormai lo spread (differenziale) dei Btp decennali con gli analoghi bund tedeschi – quelli che rendono di meno perché il debito tedesco è considerato il più sicuro d’Europa – si sta stabilizzando poco sotto ai due punti percentuali (ieri ha osillato tra 204 e 188 punti base), e i Bot a 12 mesi emessi ieri per trovare compratori hanno dovuto concedere un rendimento del 2,067%, il massimo da due anni a questa parte. E’ vero, altri paesi stanno ben peggio – la Spagna oltre che i tre già travolti, e il Belgio ci eguaglia – ma ciò non toglie che questa situazione per noi sia pesante, non fosse altro perché abbiamo sulle spalle 1867 miliardi di debito, pari al 119% del pil, che rischia di costarci 100 miliardi l’anno se le cose dovessero andare avanti così. E questo frena qualsiasi tentativo di rilancio dell’economia, di cui abbiamo un bisogno estremo considerato che siamo il paese che più ha pagato la recessione (sei punti di pil persi nel biennio 2008-9) e che oggi meno cresce (nel 2010 solo l’1%).
A proposito di ripresa e di ciò che si può (e si deve) fare per favorirla, sarà bene che ci sia un chiarimento nel governo, una volta per tutte, sulla praticabilità delle politiche di risanamento e quelle di stimolo. Perché questo balletto tra chi è bravo perché vuole spendere (Berlusconi) e chi è cattivo perché tieni chiusi i cordoni della borsa (Tremonti) non solo ha stancato, ma rischia di essere assai pericoloso. Perchè finora, salvo rarissime eccezioni, si sono sentite solo lamentazioni provenienti dal sempre vivo e vegeto “partito della spesa”. Non uno che abbia detto “tagliamo la spesa corrente e aumentiamo quella per investimenti”, e nel caso che abbia specificato su quali capitoli di spesa e in quale misura fare i risparmi. Se si vuole discutere con Tremonti, lo si faccia per indurlo a ridurre una tantum il debito, per chiedergli di aumentare l’età pensionabile a 67 anni senza eccessive gradualità, per spronarlo a semplificare gli assetti istituzionali, cominciando non solo con l’abolire le Province e tagliare il numero dei Comuni, ma con ricentralizzare la sanità in deficit quasi ovunque (non solo al Sud), e di conseguenza, visto che la spesa sanitaria rappresenta mediamente l’83% della spesa corrente delle Regioni, rivedere a 40 anni dalla riforma il loro ruolo e il loro numero. Tutto il resto è demagogia o, peggio, pura incoscienza.
E come dobbiamo giudicare l’andamento delle aste in cui ieri in Europa sono stati emessi una valanga di titoli di Stato, a cominciare da 7 miliardi di nostri Bot: bene perché il mercato ha assorbito tutte le emissioni, o male perché i tassi sono schizzati all’insù? Non sembri ponziopilatismo, ma hanno ragione i sostenitori di entrambe le tesi. Dipende di cosa parliamo. Se si fa riferimento all’economia mondiale nel suo complesso, l’aumento del pil del 4,8% segnala per il 2010 un andamento più che buono, in linea la crescita che c’era prima della crisi finanziaria del 2007 e la successiva recessione. Peccato che le economie tradizionali contribuiscano a questo risultato in misura modesta (il pil Usa cresce del 2,6%, poco più di quello giapponese, Eurolandia si attesta solo a +1,7%), mentre la gran parte del merito è ad appannaggio dell’Asia (la Cina chiude l’anno con oltre 10 punti di crescita), del Brasile, della Turchia, della Russia.
La dicono lunga anche le stime del Fondo Monetario, secondo cui la quota dell’area dell’euro nel pil mondiale, che nel 2000 era pari al 18%, a parità di potere d’acquisto nel 2015 scenderà al 13%, mentre nello stesso periodo la quota dei paesi emergenti asiatici passerà dal 15% al 29%. Tuttavia, Trichet non sbaglia quando vede anche nella vecchia Europa segnali confortanti. Basti pensare al risultato straordinario della Germania, che con un balzo del 3,7% recupera gran parte della ricchezza bruciata nel 2009 con la recessione e riesce ad affermarsi anche in quelle produzioni manifatturiere, come quella dell’auto, che altrove hanno difficoltà. Ma lo stesso numero uno della Bce non più tardi di un paio di giorni fa aveva lanciato un duro monito agli esecutivi europei, rei a suo dire di non fare tutto il necessario per coniugare il rigore nella gestione della finanza pubblica con lo sviluppo: “la Bce non sostituirà i governi irresponsabili”.
Che tradotto, in questo momento significa che Francoforte non andrà a vanti all’infinito a comprare sul mercato secondario le obbligazioni dei paesi a rischio default. Cosa che, insieme alla costituzione del fondo anti-crisi, finora ha evitato il crack non solo della Grecia, dell’Irlanda o del Portogallo, ma anche delle loro banche commerciali. Il vero problema, però, è che nonostante tutto la speculazione è sempre in agguato, e costringe i ministeri del Tesoro dei vari paesi presi di mira a pagare tassi d’interesse sui loro debiti che stanno diventando insostenibili. Si prenda il caso dell’Italia: ormai lo spread (differenziale) dei Btp decennali con gli analoghi bund tedeschi – quelli che rendono di meno perché il debito tedesco è considerato il più sicuro d’Europa – si sta stabilizzando poco sotto ai due punti percentuali (ieri ha osillato tra 204 e 188 punti base), e i Bot a 12 mesi emessi ieri per trovare compratori hanno dovuto concedere un rendimento del 2,067%, il massimo da due anni a questa parte. E’ vero, altri paesi stanno ben peggio – la Spagna oltre che i tre già travolti, e il Belgio ci eguaglia – ma ciò non toglie che questa situazione per noi sia pesante, non fosse altro perché abbiamo sulle spalle 1867 miliardi di debito, pari al 119% del pil, che rischia di costarci 100 miliardi l’anno se le cose dovessero andare avanti così. E questo frena qualsiasi tentativo di rilancio dell’economia, di cui abbiamo un bisogno estremo considerato che siamo il paese che più ha pagato la recessione (sei punti di pil persi nel biennio 2008-9) e che oggi meno cresce (nel 2010 solo l’1%).
A proposito di ripresa e di ciò che si può (e si deve) fare per favorirla, sarà bene che ci sia un chiarimento nel governo, una volta per tutte, sulla praticabilità delle politiche di risanamento e quelle di stimolo. Perché questo balletto tra chi è bravo perché vuole spendere (Berlusconi) e chi è cattivo perché tieni chiusi i cordoni della borsa (Tremonti) non solo ha stancato, ma rischia di essere assai pericoloso. Perchè finora, salvo rarissime eccezioni, si sono sentite solo lamentazioni provenienti dal sempre vivo e vegeto “partito della spesa”. Non uno che abbia detto “tagliamo la spesa corrente e aumentiamo quella per investimenti”, e nel caso che abbia specificato su quali capitoli di spesa e in quale misura fare i risparmi. Se si vuole discutere con Tremonti, lo si faccia per indurlo a ridurre una tantum il debito, per chiedergli di aumentare l’età pensionabile a 67 anni senza eccessive gradualità, per spronarlo a semplificare gli assetti istituzionali, cominciando non solo con l’abolire le Province e tagliare il numero dei Comuni, ma con ricentralizzare la sanità in deficit quasi ovunque (non solo al Sud), e di conseguenza, visto che la spesa sanitaria rappresenta mediamente l’83% della spesa corrente delle Regioni, rivedere a 40 anni dalla riforma il loro ruolo e il loro numero. Tutto il resto è demagogia o, peggio, pura incoscienza.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.