Il Paese deve sentire di avere una guida salda
Idee per Tremonti
Che cosa può fare il governo per evitare che le industrie italiane si sentano soledi Enrico Cisnetto - 15 aprile 2011
Ci si può infastidire quanto si vuole del lamento di Emma Marcegaglia sulla “solitudine degli imprenditori”, ma non fino al punto di dare a lei e alla Confindustria la patente di “ingrati”. Perché le imprese hanno fin troppo sopportato un governo e una maggioranza che in tre anni di vita sono stati impegnati prevalentemente in vicende estranee alla conduzione del Paese – un po’ per colpa propria (la diaspora Fini) e un po’ per le varie questioni giudiziarie del premier – e per quel poco di tempo dedicato alle scelte, hanno giocato una partita minimalista e conservatrice.
Naturalmente gli industriali hanno le loro colpe, e non marginali, non fosse altro perché hanno assunto un atteggiamento rinunciatario, congelando gli investimenti. Ma come si fa a chieder loro di essere coraggiosi e intraprendenti quando il clima che la politica ha creato nel Paese è quello del rinvio (nucleare), della rinuncia (infrastrutture), del cambiamento delle carte in tavola (rinnovabili), della riduzione del danno (rigore senza sviluppo)? Come si fa a pretendere gratitudine se la maggioranza è divisa e litigiosa e le opposizioni vivono solo di anti-berlusconismo e non hanno uno straccio di proposta alternativa? Di fronte al tirare a campare degli uni e all’attesa palingenetica degli altri, è ovvio che si chiudano portafogli e si tirino i remi in barca.
Tremonti ha deciso di provare a risolvere il problema affidandosi ai “non privati”, dalle fondazioni bancarie alla Cdp. Lo capisco e per molti versi lo approvo. In fatti, sulle capacità e qualità dell’imprenditoria privata italica circola da sempre molta retorica, in realtà la storia nazionale ci insegna che senza l’Iri e l’Eni e senza la Mediobanca pubblica di Cuccia non saremmo mai diventati la sesta potenza industriale del mondo.
Oggi viviamo un modello di sviluppo ibrido: da un lato, le imprese che hanno fatto il salto di qualità sia sotto il profilo dell’internazionalizzazione che del livello di innovazione tecnologica – ma non ancora quello dimensionale – dall’altro quelle che sono rimaste indietro, al “piccolo è bello” e al costo del lavoro come fattore determinante di esistenza. Le prime sono forti, ma troppo poche; le seconde sono deboli, e ancora troppe. Dunque c’è bisogno che il capitalismo – invece di baloccarsi con i giochetti del “salotto buono”, che poi è un “tinello povero” – faccia fino in fondo il percorso di trasformazione darwiniana che la crisi mondiale l’ha costretta, con molto ritardo, ad imboccare.
Ma perché questo accada, oltre agli strumenti “pubblici” che Tremonti intende usare, occorre che il sistema politico crei le condizioni, psicologiche prima ancora che pratiche, adatte. Deve cioè uscire dal perverso meccanismo del massimalismo delle dichiarazioni cui fa da contrappunto il minimalismo delle decisioni. In altre parole, il Paese deve sentire di avere una guida salda, con le idee chiare circa gli obiettivi e sui mezzi con cui perseguirli.
Da questo punto di vista, servono i documenti programmatici esaminati dal consiglio dei ministri? Intanto, certo non gioca a favore il fatto che se ne sia parlato quasi di sfuggita, nell’attesa che i ministri fossero chiamati a far numero alla Camera per consentire al premier di portare a casa il provvedimento sulla “prescrizione breve”, con lo stesso Berlusconi che asseriva di non averli neppure letti.
Ma quel che più conta, negativamente, è che siano rimasti nel cassetto quei grandi interventi riformatori – riassumibili nel concetto di una drastica riduzione della spesa pubblica corrente, a favore sia del risanamento di bilancio sia degli investimenti – mentre si è scelto il doppio passo del “presentismo” e del “futurismo”. Laddove con il primo s’intende una politica economica che prende atto di tutti i vincoli del presente e non tenta di rimuoverli ma cerca il miglior risultato possibile nella condizione data, e con il secondo termine s’intende un’elencazione di obiettivi di medio-lungo termine, a cominciare da quelli di natura fiscale, che nella percezione siano compensativi della povertà dell’immediato.
Naturalmente, di questo non si può farne una colpa a Tremonti, o non solo a lui. Egli agisce in un quadro politico precario, e sa che le prossime scadenze elettorali (un turno di amministrative ora, e prima o poi le politiche) inducono a scelte di spesa (peraltro senza sviluppo) tutti coloro che sperano di guadagnare consenso mettendo sotto accusa il suo rigore. Ma questo non toglie che programmare altri tre anni di crescita “all’uno virgola” sia un esercizio, pur realistico, che certo non aiuta il Paese a darsi una mossa.
Naturalmente gli industriali hanno le loro colpe, e non marginali, non fosse altro perché hanno assunto un atteggiamento rinunciatario, congelando gli investimenti. Ma come si fa a chieder loro di essere coraggiosi e intraprendenti quando il clima che la politica ha creato nel Paese è quello del rinvio (nucleare), della rinuncia (infrastrutture), del cambiamento delle carte in tavola (rinnovabili), della riduzione del danno (rigore senza sviluppo)? Come si fa a pretendere gratitudine se la maggioranza è divisa e litigiosa e le opposizioni vivono solo di anti-berlusconismo e non hanno uno straccio di proposta alternativa? Di fronte al tirare a campare degli uni e all’attesa palingenetica degli altri, è ovvio che si chiudano portafogli e si tirino i remi in barca.
Tremonti ha deciso di provare a risolvere il problema affidandosi ai “non privati”, dalle fondazioni bancarie alla Cdp. Lo capisco e per molti versi lo approvo. In fatti, sulle capacità e qualità dell’imprenditoria privata italica circola da sempre molta retorica, in realtà la storia nazionale ci insegna che senza l’Iri e l’Eni e senza la Mediobanca pubblica di Cuccia non saremmo mai diventati la sesta potenza industriale del mondo.
Oggi viviamo un modello di sviluppo ibrido: da un lato, le imprese che hanno fatto il salto di qualità sia sotto il profilo dell’internazionalizzazione che del livello di innovazione tecnologica – ma non ancora quello dimensionale – dall’altro quelle che sono rimaste indietro, al “piccolo è bello” e al costo del lavoro come fattore determinante di esistenza. Le prime sono forti, ma troppo poche; le seconde sono deboli, e ancora troppe. Dunque c’è bisogno che il capitalismo – invece di baloccarsi con i giochetti del “salotto buono”, che poi è un “tinello povero” – faccia fino in fondo il percorso di trasformazione darwiniana che la crisi mondiale l’ha costretta, con molto ritardo, ad imboccare.
Ma perché questo accada, oltre agli strumenti “pubblici” che Tremonti intende usare, occorre che il sistema politico crei le condizioni, psicologiche prima ancora che pratiche, adatte. Deve cioè uscire dal perverso meccanismo del massimalismo delle dichiarazioni cui fa da contrappunto il minimalismo delle decisioni. In altre parole, il Paese deve sentire di avere una guida salda, con le idee chiare circa gli obiettivi e sui mezzi con cui perseguirli.
Da questo punto di vista, servono i documenti programmatici esaminati dal consiglio dei ministri? Intanto, certo non gioca a favore il fatto che se ne sia parlato quasi di sfuggita, nell’attesa che i ministri fossero chiamati a far numero alla Camera per consentire al premier di portare a casa il provvedimento sulla “prescrizione breve”, con lo stesso Berlusconi che asseriva di non averli neppure letti.
Ma quel che più conta, negativamente, è che siano rimasti nel cassetto quei grandi interventi riformatori – riassumibili nel concetto di una drastica riduzione della spesa pubblica corrente, a favore sia del risanamento di bilancio sia degli investimenti – mentre si è scelto il doppio passo del “presentismo” e del “futurismo”. Laddove con il primo s’intende una politica economica che prende atto di tutti i vincoli del presente e non tenta di rimuoverli ma cerca il miglior risultato possibile nella condizione data, e con il secondo termine s’intende un’elencazione di obiettivi di medio-lungo termine, a cominciare da quelli di natura fiscale, che nella percezione siano compensativi della povertà dell’immediato.
Naturalmente, di questo non si può farne una colpa a Tremonti, o non solo a lui. Egli agisce in un quadro politico precario, e sa che le prossime scadenze elettorali (un turno di amministrative ora, e prima o poi le politiche) inducono a scelte di spesa (peraltro senza sviluppo) tutti coloro che sperano di guadagnare consenso mettendo sotto accusa il suo rigore. Ma questo non toglie che programmare altri tre anni di crescita “all’uno virgola” sia un esercizio, pur realistico, che certo non aiuta il Paese a darsi una mossa.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.