Stato e mercato
I tre vizi della politica industriale italiana
Sea, Alcoa, Ilva sono tre facce della stessa medaglia di un'Italia chiusa fra campanilismi e mancanza di lungimiranzadi Enrico Cisnetto - 14 settembre 2012
Dall’Ilva al Sulcis fino alla riapertura del dossier Linate-Malpensa, finalmente si torna a parlare di politica industriale, e in particolare dei fattori che incidono sulla competitività strutturale del “sistema Italia”.
Nel primo caso si tocca un coacervo di problemi, che vanno dal rispetto dell’ambiente al ruolo della magistratura inquirente senza dimenticare i limiti evidenti del capitalismo familiare made in Italy. Il secondo caso riguarda il tema dell’energia, il cui eccesso di costo rispetto agli altri paesi contribuisce in modo pesante a formare il nostro gap competitivo, mentre nel terzo sotto accusa è la mancata pianificazione della mobilità, che castra il dinamismo delle imprese e delle persone e allontana il turismo di qualità.
Insomma, punti di pil in meno, non chiacchiere da convegno. Ma sono molte le situazioni, specie sul fronte delle infrastrutture materiali (tav, per esempio) e immateriali (banda larga e non solo), che sollecitano risposte non estemporanee. Il vero problema è che quasi sempre i problemi vengono affrontati quando diventano emergenze, gestiti finché i riflettori dell’attenzione non si spostano altrove, e poi dimenticati fino a che non diventano nodi inestricabili e, tornando ad essere emergenze, si ricomincia daccapo.
Prendiamo il caso dei due aeroporti della Sea. È da quando si scelse di fare di Malpensa un hub che il caso Linate è aperto. Ci sono stati un paio di decreti di Burlando e uno di Bersani per fare l’unica cosa logica, e cioè ridimensionare Linate a city airport per la tratta Milano-Roma-Milano, lasciando a Malpensa tutti gli altri voli nazionali e internazionali. Ma tra inerzie italiane e insensatezze europee, siamo punto e a capo. Con l’aggravante che nel frattempo Alitalia ha mollato Linate e che il volo tra le due principali città italiane soffre la pesante concorrenza del treno veloce. Giusto, quindi, da parte del ministro Passera, riaprire la questione. Ma al suo annuncio si è subito alzato un polverone. C’è chi lo accusa di dirigismo (ma i soldi investiti per fare la nuova Malpensa erano pubblici o privati?), sostenendo persino in nome del verbo liberista che predisporre il “piano nazionale degli aeroporti” sarebbe peccato mortale. E c’è chi, invece, solletica l’egoismo campanilista per difendere il privilegio di avere l’aeroporto dentro la città che ti porta ovunque (favorendo così gli hub stranieri per i voli intercontinentali). Ma Linate sta scoppiando e Malpensa, pur avendo fatto un’ottima performance nonostante la perdita da un giorno all’altro dei voli Alitalia, ha invece bisogno di crescere (in ballo c’è generazione di ricchezza per 30 miliardi, due punti di pil) per corrispondere appieno alle sue potenzialità. E dare risposta a questa contraddizione è interesse (generale) più significativo di quello (specifico) della comodità di qualcuno. Senza contare che razionalizzare la giungla degli scali (il federalismo aeroportuale ne ha partorito oltre cento) sarebbe un bel capitolo della spending review.
Volendo, è l’altra faccia della medaglia della vicenda Carbosulcis e Alcoa. Laddove per mantenere posti di lavoro che non stanno in piedi dal punto di vista economico, si sono spesi negli anni miliardi per estrarre un pessimo carbone non competitivo e usarlo per fare una produzione altamente energivora come quella dell’alluminio, a prezzi enormemente superiori a quelli che si spendono per importarlo. Il tutto scaricando gli sconti in bolletta, a carico dei consumatori. Mentre se quei quattrini fossero stati investiti in altre attività più redditizie e capaci di avere futuro, ora avremmo più occupati e più pil.
Il fatto è che quando si discute di politica industriale, invece che parlare delle scelte strategiche di cui il Paese ha bisogno, provando a dar loro organicità inquadrandole in un unico progetto paese, ci si imbatte in tre gravi vizi italici che ci impediscono di prendere decisioni lungimiranti e, quando prese, di attuarle.
Il primo vizio è di natura ideologica, e attiene ad una discussione ormai preistorica: l’equilibrio tra Stato e mercato. Basta, non se ne può più. Ci vogliono entrambi: più Stato, nel senso di più scelte strategiche che la politica si deve assumere la responsabilità di fare; più mercato, nel senso di meno vincoli e meno burocrazia ma nello stesso tempo maggiore trasparenza e rispetto delle regole. Il secondo vizio è culturale: ci siamo abituati al brevissimo termine e non riusciamo ad alzare la testa verso il tempo medio e lungo. Il terzo è insito nella scelta, suicida per un paese campanilista come il nostro, di favorire la discesa delle decisioni verso il basso della piramide del decentramento. Siamo avviluppati in una giungla di egoismi territoriali, cui dobbiamo trovare di dare un taglio. Prossima legislatura?
Nel primo caso si tocca un coacervo di problemi, che vanno dal rispetto dell’ambiente al ruolo della magistratura inquirente senza dimenticare i limiti evidenti del capitalismo familiare made in Italy. Il secondo caso riguarda il tema dell’energia, il cui eccesso di costo rispetto agli altri paesi contribuisce in modo pesante a formare il nostro gap competitivo, mentre nel terzo sotto accusa è la mancata pianificazione della mobilità, che castra il dinamismo delle imprese e delle persone e allontana il turismo di qualità.
Insomma, punti di pil in meno, non chiacchiere da convegno. Ma sono molte le situazioni, specie sul fronte delle infrastrutture materiali (tav, per esempio) e immateriali (banda larga e non solo), che sollecitano risposte non estemporanee. Il vero problema è che quasi sempre i problemi vengono affrontati quando diventano emergenze, gestiti finché i riflettori dell’attenzione non si spostano altrove, e poi dimenticati fino a che non diventano nodi inestricabili e, tornando ad essere emergenze, si ricomincia daccapo.
Prendiamo il caso dei due aeroporti della Sea. È da quando si scelse di fare di Malpensa un hub che il caso Linate è aperto. Ci sono stati un paio di decreti di Burlando e uno di Bersani per fare l’unica cosa logica, e cioè ridimensionare Linate a city airport per la tratta Milano-Roma-Milano, lasciando a Malpensa tutti gli altri voli nazionali e internazionali. Ma tra inerzie italiane e insensatezze europee, siamo punto e a capo. Con l’aggravante che nel frattempo Alitalia ha mollato Linate e che il volo tra le due principali città italiane soffre la pesante concorrenza del treno veloce. Giusto, quindi, da parte del ministro Passera, riaprire la questione. Ma al suo annuncio si è subito alzato un polverone. C’è chi lo accusa di dirigismo (ma i soldi investiti per fare la nuova Malpensa erano pubblici o privati?), sostenendo persino in nome del verbo liberista che predisporre il “piano nazionale degli aeroporti” sarebbe peccato mortale. E c’è chi, invece, solletica l’egoismo campanilista per difendere il privilegio di avere l’aeroporto dentro la città che ti porta ovunque (favorendo così gli hub stranieri per i voli intercontinentali). Ma Linate sta scoppiando e Malpensa, pur avendo fatto un’ottima performance nonostante la perdita da un giorno all’altro dei voli Alitalia, ha invece bisogno di crescere (in ballo c’è generazione di ricchezza per 30 miliardi, due punti di pil) per corrispondere appieno alle sue potenzialità. E dare risposta a questa contraddizione è interesse (generale) più significativo di quello (specifico) della comodità di qualcuno. Senza contare che razionalizzare la giungla degli scali (il federalismo aeroportuale ne ha partorito oltre cento) sarebbe un bel capitolo della spending review.
Volendo, è l’altra faccia della medaglia della vicenda Carbosulcis e Alcoa. Laddove per mantenere posti di lavoro che non stanno in piedi dal punto di vista economico, si sono spesi negli anni miliardi per estrarre un pessimo carbone non competitivo e usarlo per fare una produzione altamente energivora come quella dell’alluminio, a prezzi enormemente superiori a quelli che si spendono per importarlo. Il tutto scaricando gli sconti in bolletta, a carico dei consumatori. Mentre se quei quattrini fossero stati investiti in altre attività più redditizie e capaci di avere futuro, ora avremmo più occupati e più pil.
Il fatto è che quando si discute di politica industriale, invece che parlare delle scelte strategiche di cui il Paese ha bisogno, provando a dar loro organicità inquadrandole in un unico progetto paese, ci si imbatte in tre gravi vizi italici che ci impediscono di prendere decisioni lungimiranti e, quando prese, di attuarle.
Il primo vizio è di natura ideologica, e attiene ad una discussione ormai preistorica: l’equilibrio tra Stato e mercato. Basta, non se ne può più. Ci vogliono entrambi: più Stato, nel senso di più scelte strategiche che la politica si deve assumere la responsabilità di fare; più mercato, nel senso di meno vincoli e meno burocrazia ma nello stesso tempo maggiore trasparenza e rispetto delle regole. Il secondo vizio è culturale: ci siamo abituati al brevissimo termine e non riusciamo ad alzare la testa verso il tempo medio e lungo. Il terzo è insito nella scelta, suicida per un paese campanilista come il nostro, di favorire la discesa delle decisioni verso il basso della piramide del decentramento. Siamo avviluppati in una giungla di egoismi territoriali, cui dobbiamo trovare di dare un taglio. Prossima legislatura?
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.