Fermiamo la macchia infernale
I fratelli Graviano
Per quanto tempo ancora il nostro dibattito civile deve andare a rimorchio dei delinquenti?di Davide Giacalone - 06 maggio 2011
I fratelli Graviano, mafiosi della zona Brancaccio, a Palermo, non avranno grande spazio sulle prime pagine. Avare cronache, forse. Hanno solo detto, in fondo, che il loro soldato, il loro macellaio di fiducia, Gaspare Spatuzza, ha raccontato corbellerie a due a due finché non fanno dispari, sicché la storia secondo la quale, seduti al bar, gli avrebbero detto di avere “l’Italia in mano”, grazie a Berlusconi, è una bubbola. Uno dei fratelli, il più naturalmente boss, ha aggiunto di non volere parlare di politica, che ci sono processi in corso e si vedrà. Non si sa mai.
L’altro, invece, ha detto di non conoscere Marcello Dell’Utri e di non avere mai dato indicazione di votare per Forza Italia, tanto più che era latitante da anni, lontano da Palermo. Che noi tutti non si perda gran tempo a palare di loro, delle parole di due disonorati, è giusto. Peccato che se avessero detto il contrario, invece, non avremmo fatto altro. Per giorni, settimane, mesi. Anni.
Prima di loro, nella stessa aula, è stato interrogato Giovanni Brusca. Altro disonorato, altro macellaio. Ha detto che Nicola Mancino, allora ministro dell’interno, era il “committente finale” (chi suggerisce dovrebbe, almeno, spiegare la lingua italiana, a questi animali) del papello, ovvero di quel documento a metà strada fra il comico e l’assurdo, stilato, si dice, da Totò Riina. Ha anche detto che la mafia aveva rapporti con la sinistra e che Silvio Berlusconi non è il mandante delle stragi del 1993 (che non furono stragi e che finirono dopo che Giovanni Conso, ministro del governo Ciampi, su suggerimento di un uomo segnalato da Oscar Luigi Scalfaro, disapplicò il carcere duro).
Ha aggiunto che, comunque, la mafia provò a contattare Berlusconi, per il tramite di un addetto alle pulizie di Canale 5, segnalato da Vittorio Mancano, minacciando sfaceli ove non avesse trattato con loro. I titoli dei giornali, in prima pagina, erano di questo tenore: Brusca, trattammo con Berlusconi. Alla faccia del fatto che il 41 bis era stato ripristinato e che non è più scoppiato neanche un petardo.
Brusca, lo stesso soggetto che, parlando con il cognato, in carcere, disse che la mafia avrebbe dovuto fare un piacere a Berlusconi, ammazzando Carlo De Benedetti, casualmente facendosi intercettare e irragionevolmente intrattenendosi con un congiunto libero, ha già avuto benefici e prova a riaverli. Quale ringraziamento per la sua collaborazione. I fratelli Graviano, invece, se ne stanno seppelliti nel cemento carcerario. Come meritano, del resto.
Sicché noi tutti, di destra e di sinistra, di sopra e di sotto, alla sola condizione d’essere mediamente intelligenti e passabilmente onesti, dovremmo porci una e una sola domanda: per quanto tempo ancora il nostro dibattito civile deve andare a rimorchio dei delinquenti? e per quanto, ancora, le loro parole diventeranno oracolo se accusano Berlusconi e saranno segno di perdurante mafiosità se accusano gli altri? Tutto qui.
Questa storia d’inciviltà e di prostituzione alla mafia comincia quando finisce una vita, il 23 maggio del 1992. Quel giorno fu ammazzato Giovanni Falcone, che era già un perdente, era già stato battuto e isolato dalla sinistra politica e giudiziaria, ma, da vivente, avrebbe reso difficile, se non impossibile, l’uso dei pentiti quali jukebox pronti a cantare canzoni politiche. Da quel giorno si diparte una follia di cui continuiamo ad essere vittime, consegnando nelle mani dei peggiori la possibilità d’inquinare la storia di tutti.
Dovremo riscriverla per intero, la storia, proprio a partire da quel giorno di maggio, diciannove anni fa. Non sarà né facile né indolore. Ma, nel frattempo, potremo, almeno, mettere la testa a posto, provvedere a non versare altro veleno nei pozzi. Certo, chi ha commesso reati deve essere processato. Certo, i collaboratori di giustizia devono essere utilizzati.
Ma, per non finire strangolati dai ricatti e non mettersi al servizio dei mafiosi, basterebbe aggiungere un dettaglio: chi collabora sarà premiato, ma chi non dice tutto in tempi certi e brevi, chi mente, chi nasconde e chi torna a delinquere, anche solo per riappropriarsi di soldi frutto del crimine, non è che va incontro alla sospensione dei benefici, paga l’intero debito, raddoppiato. Puoi prendere in giro un procuratore, o puoi pensare d’essere furbo mettendoti al servizio di un procuratore che fa politica, ma rischi non di dovere trattare nuovamente, bensì d’essere seppellito dove è più che giusto che solo la morte venga a raccoglierti.
La colpa della sinistra, colpa enorme, è quella di avere assecondato chiunque e qualsiasi cosa l’aiutasse a vincere una partita che, con la democrazia e le elezioni, non riesce a vincere. La colpa della destra, colpa enorme, è quella di avere difeso se stessa, i suoi capi, senza accorgersi che, per difendere la collettività, occorre una riforma profonda, garantista e severa, della giustizia. Queste colpe hanno provocato guasti straordinari. In attesa di porre rimedio, di riscrivere la nostra storia, almeno, si fermi la macchia infernale. Costruita sul sangue dei magistrati onesti e competenti.
Pubblicato da Libero
L’altro, invece, ha detto di non conoscere Marcello Dell’Utri e di non avere mai dato indicazione di votare per Forza Italia, tanto più che era latitante da anni, lontano da Palermo. Che noi tutti non si perda gran tempo a palare di loro, delle parole di due disonorati, è giusto. Peccato che se avessero detto il contrario, invece, non avremmo fatto altro. Per giorni, settimane, mesi. Anni.
Prima di loro, nella stessa aula, è stato interrogato Giovanni Brusca. Altro disonorato, altro macellaio. Ha detto che Nicola Mancino, allora ministro dell’interno, era il “committente finale” (chi suggerisce dovrebbe, almeno, spiegare la lingua italiana, a questi animali) del papello, ovvero di quel documento a metà strada fra il comico e l’assurdo, stilato, si dice, da Totò Riina. Ha anche detto che la mafia aveva rapporti con la sinistra e che Silvio Berlusconi non è il mandante delle stragi del 1993 (che non furono stragi e che finirono dopo che Giovanni Conso, ministro del governo Ciampi, su suggerimento di un uomo segnalato da Oscar Luigi Scalfaro, disapplicò il carcere duro).
Ha aggiunto che, comunque, la mafia provò a contattare Berlusconi, per il tramite di un addetto alle pulizie di Canale 5, segnalato da Vittorio Mancano, minacciando sfaceli ove non avesse trattato con loro. I titoli dei giornali, in prima pagina, erano di questo tenore: Brusca, trattammo con Berlusconi. Alla faccia del fatto che il 41 bis era stato ripristinato e che non è più scoppiato neanche un petardo.
Brusca, lo stesso soggetto che, parlando con il cognato, in carcere, disse che la mafia avrebbe dovuto fare un piacere a Berlusconi, ammazzando Carlo De Benedetti, casualmente facendosi intercettare e irragionevolmente intrattenendosi con un congiunto libero, ha già avuto benefici e prova a riaverli. Quale ringraziamento per la sua collaborazione. I fratelli Graviano, invece, se ne stanno seppelliti nel cemento carcerario. Come meritano, del resto.
Sicché noi tutti, di destra e di sinistra, di sopra e di sotto, alla sola condizione d’essere mediamente intelligenti e passabilmente onesti, dovremmo porci una e una sola domanda: per quanto tempo ancora il nostro dibattito civile deve andare a rimorchio dei delinquenti? e per quanto, ancora, le loro parole diventeranno oracolo se accusano Berlusconi e saranno segno di perdurante mafiosità se accusano gli altri? Tutto qui.
Questa storia d’inciviltà e di prostituzione alla mafia comincia quando finisce una vita, il 23 maggio del 1992. Quel giorno fu ammazzato Giovanni Falcone, che era già un perdente, era già stato battuto e isolato dalla sinistra politica e giudiziaria, ma, da vivente, avrebbe reso difficile, se non impossibile, l’uso dei pentiti quali jukebox pronti a cantare canzoni politiche. Da quel giorno si diparte una follia di cui continuiamo ad essere vittime, consegnando nelle mani dei peggiori la possibilità d’inquinare la storia di tutti.
Dovremo riscriverla per intero, la storia, proprio a partire da quel giorno di maggio, diciannove anni fa. Non sarà né facile né indolore. Ma, nel frattempo, potremo, almeno, mettere la testa a posto, provvedere a non versare altro veleno nei pozzi. Certo, chi ha commesso reati deve essere processato. Certo, i collaboratori di giustizia devono essere utilizzati.
Ma, per non finire strangolati dai ricatti e non mettersi al servizio dei mafiosi, basterebbe aggiungere un dettaglio: chi collabora sarà premiato, ma chi non dice tutto in tempi certi e brevi, chi mente, chi nasconde e chi torna a delinquere, anche solo per riappropriarsi di soldi frutto del crimine, non è che va incontro alla sospensione dei benefici, paga l’intero debito, raddoppiato. Puoi prendere in giro un procuratore, o puoi pensare d’essere furbo mettendoti al servizio di un procuratore che fa politica, ma rischi non di dovere trattare nuovamente, bensì d’essere seppellito dove è più che giusto che solo la morte venga a raccoglierti.
La colpa della sinistra, colpa enorme, è quella di avere assecondato chiunque e qualsiasi cosa l’aiutasse a vincere una partita che, con la democrazia e le elezioni, non riesce a vincere. La colpa della destra, colpa enorme, è quella di avere difeso se stessa, i suoi capi, senza accorgersi che, per difendere la collettività, occorre una riforma profonda, garantista e severa, della giustizia. Queste colpe hanno provocato guasti straordinari. In attesa di porre rimedio, di riscrivere la nostra storia, almeno, si fermi la macchia infernale. Costruita sul sangue dei magistrati onesti e competenti.
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L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.