Relazioni industriali
I 19 della Fiat
La convenienza pubblica è che l’impresa non sia tutelata dal fallimento, mentre la convenienza del lavoratore è che prosperi e assuma ancora, altrimenti cessa d’essere tale.di Davide Giacalone - 02 novembre 2012
Sergio Marchionne lo ha osservato con amarezza: in Italia mi chiamano l’americano, negli Stati Uniti l’italiano. In entrambe i casi in senso negativo. Nel primo con riferimento ad una logica del profitto che vorrebbe prevalere su ogni altra considerazione, nel secondo per la prontezza nell’approfittare dei fondi pubblici, grazie ai quali privatizzare i guadagni e socializzare le perdite. Eppure, a dispetto di tante critiche, il successo di Marchionne ha un riflesso sociale in Italia, perché mantenere gli stabilimenti storici non si limita a salvare quei posti di lavoro, ma a tenere in vita un settore nel quale abbiamo eccellenze da far crescere, e ha, quel successo, anche un rilievo sociale negli Usa, perché chiudere quelle fabbriche avrebbe significato smantellare non solo un pezzo della storia industriale americana, ma anche una tessera della loro potenza economica. E, infine, il suo essere americano e italiano significa anche sapere interpretare, senza timori reverenziali, la sfida dei mercati globali, portandovi quel che più vale nell’immagine, ma anche nella realtà del nostro Paese: la qualità.
E’ ovvio che il successo è e sarà un merito suo e della squadra con la quale lavora, così come, del resto, un insuccesso sarebbe da ascriversi a sua e loro responsabilità, ma non è poi così ovvio, quindi da sottolineare, che a noi tutti conviene siano i successi a prevalere sugli insuccessi. Gli americani se ne rendeno conto e la rivista Automotive Magazine che lo nomina “uomo dell’anno 2013”. Nella nostra comunità nazionale siamo più freddini, giacché non cedere troppo alle esaltazioni è uno dei tratti ammirevoli del carattere nazionale, laddove, all’opposto, l’eccedere nelle demolizioni e nelle autodemolizioni ne è uno degli aspetti meno gradevoli.
Marchionne è (ri)finito nel mirino delle critiche per la decisione di mettere in mobilità 19 operai, nello stesso momento in cui il giudice ha imposto a Fiat di riassumere, nello stabilimento di Pomigliano, 19 licenziati. Anche il ministro delle attività produttive, Corrado Passera, ha voluto aggiungere il proprio giudizio negativo: quella mossa non mi è piaciuta, ha detto. Ma è del tutto logica. Anzi, sarebbe stato strano il contrario. Il numero di lavoratori necessario, in una determinata attività produttiva, non può essere né una variabile indipendente (ci volle il coraggio di Luciano Lama, in drammatico e colpevole ritardo, per ammettere che non lo era neanche il salario) né un tema amministrato dai tribunali. Come neanche dalla politica o dai giornali. Quanta gente serve lo decide l’impresa. La cui decisione va rispettata per la semplice ragione che se sbagliano in difetto perdono quote di mercato e se sbagliano in eccesso perdono quattrini. Il guaio italiano è proprio quello di avere troppo a lungo preservato sia il lavoro che l’impresa dai propri errori, finendo con allevare non pochi irresponsabili. Il ministro Passera dovrebbe preoccuparsi che non si torni a quel passato (ancora presente), piuttosto del contrario.
Ebbene, se il giudice impone di riassumere 19 persone, a suo tempo licenziate, è evidente che il loro ritrovato posto si traduce in un posto mancante per altri. Ove così non fosse (e così a lungo non è stato) diventa troppo facile per i giudici optare sempre per le riassunzioni, in questo modo facendo felici molti e scontentando pochissimi (come, infatti, hanno preso, da lungo tempo, a fare). Peccato che, in questo modo, falliscono le aziende e il posto lo perdono tutti. Per evitare la fame scattano gli ammortizzatori sociali, i quali vanno a pesare sulla spesa pubblica, alimentandone la perversione improduttiva. Un capolavoro che genera miseria. Rompendo anche questo tabù Marchionne si ascrive un merito.
So benissimo che quanto ho appena scritto m’inserisce d’ufficio nel novero di quanti sono considerati al servizio del “padrone” e contro i “lavoratori”. Me ne cruccio poco, perché trattasi di sesquipedale minchioneria: tralasciando il linguaggio ottocentesco, che tradisce un pensiero di pari data, la convenienza pubblica è che l’impresa non sia tutelata dal fallimento, mentre la convenienza del lavoratore è che prosperi e assuma ancora, altrimenti cessa d’essere tale.
Ho letto con piacere che Marchionne considera un errore l’avere dato l’annuncio di “Fabbrica Italia”. E’ quanto osservammo allora (mai fidarsi dei servitori, tendono a fregare in dispensa e sputare nel brodo!). L’assenza di dettagli credibili rese quelle parole propagandistiche. Ammetterlo è un bene.
Concludo con quel che non c’entra niente: non mi piacciono le divise. Vale per i jeans degli informatici straricchi come per il maglioncino di Marchionne. Sono sempre un cedimento all’immagine di sé. Che è un elemento di debolezza.
E’ ovvio che il successo è e sarà un merito suo e della squadra con la quale lavora, così come, del resto, un insuccesso sarebbe da ascriversi a sua e loro responsabilità, ma non è poi così ovvio, quindi da sottolineare, che a noi tutti conviene siano i successi a prevalere sugli insuccessi. Gli americani se ne rendeno conto e la rivista Automotive Magazine che lo nomina “uomo dell’anno 2013”. Nella nostra comunità nazionale siamo più freddini, giacché non cedere troppo alle esaltazioni è uno dei tratti ammirevoli del carattere nazionale, laddove, all’opposto, l’eccedere nelle demolizioni e nelle autodemolizioni ne è uno degli aspetti meno gradevoli.
Marchionne è (ri)finito nel mirino delle critiche per la decisione di mettere in mobilità 19 operai, nello stesso momento in cui il giudice ha imposto a Fiat di riassumere, nello stabilimento di Pomigliano, 19 licenziati. Anche il ministro delle attività produttive, Corrado Passera, ha voluto aggiungere il proprio giudizio negativo: quella mossa non mi è piaciuta, ha detto. Ma è del tutto logica. Anzi, sarebbe stato strano il contrario. Il numero di lavoratori necessario, in una determinata attività produttiva, non può essere né una variabile indipendente (ci volle il coraggio di Luciano Lama, in drammatico e colpevole ritardo, per ammettere che non lo era neanche il salario) né un tema amministrato dai tribunali. Come neanche dalla politica o dai giornali. Quanta gente serve lo decide l’impresa. La cui decisione va rispettata per la semplice ragione che se sbagliano in difetto perdono quote di mercato e se sbagliano in eccesso perdono quattrini. Il guaio italiano è proprio quello di avere troppo a lungo preservato sia il lavoro che l’impresa dai propri errori, finendo con allevare non pochi irresponsabili. Il ministro Passera dovrebbe preoccuparsi che non si torni a quel passato (ancora presente), piuttosto del contrario.
Ebbene, se il giudice impone di riassumere 19 persone, a suo tempo licenziate, è evidente che il loro ritrovato posto si traduce in un posto mancante per altri. Ove così non fosse (e così a lungo non è stato) diventa troppo facile per i giudici optare sempre per le riassunzioni, in questo modo facendo felici molti e scontentando pochissimi (come, infatti, hanno preso, da lungo tempo, a fare). Peccato che, in questo modo, falliscono le aziende e il posto lo perdono tutti. Per evitare la fame scattano gli ammortizzatori sociali, i quali vanno a pesare sulla spesa pubblica, alimentandone la perversione improduttiva. Un capolavoro che genera miseria. Rompendo anche questo tabù Marchionne si ascrive un merito.
So benissimo che quanto ho appena scritto m’inserisce d’ufficio nel novero di quanti sono considerati al servizio del “padrone” e contro i “lavoratori”. Me ne cruccio poco, perché trattasi di sesquipedale minchioneria: tralasciando il linguaggio ottocentesco, che tradisce un pensiero di pari data, la convenienza pubblica è che l’impresa non sia tutelata dal fallimento, mentre la convenienza del lavoratore è che prosperi e assuma ancora, altrimenti cessa d’essere tale.
Ho letto con piacere che Marchionne considera un errore l’avere dato l’annuncio di “Fabbrica Italia”. E’ quanto osservammo allora (mai fidarsi dei servitori, tendono a fregare in dispensa e sputare nel brodo!). L’assenza di dettagli credibili rese quelle parole propagandistiche. Ammetterlo è un bene.
Concludo con quel che non c’entra niente: non mi piacciono le divise. Vale per i jeans degli informatici straricchi come per il maglioncino di Marchionne. Sono sempre un cedimento all’immagine di sé. Che è un elemento di debolezza.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.