Cinque regole d’oro per una riforma seria
Giochi fiscali
Riforma fiscale: ci vuole una rivoluzione copernicanadi Enrico Cisnetto - 22 gennaio 2010
Riforma fiscale, passo e chiudo. Perché l’ipotesi di abbassare le tasse come strumento per archiviare definitivamente la recessione e aiutare la ripresa a consolidarsi, è stata cancellata dall’agenda politica subito dopo essere stata evocata dal presidente del Consiglio? Ed è un bene o un male che sia così miseramente abortita? Che finesse in questo modo era scritto, che succedesse così presto francamente ha sorpreso, che la sua archiviazione sia considerabile allo stesso tempo un fatto positivo e negativo è facilmente dimostrabile. Vediamo perché.
Riproporre un’idea di 15 anni prima senza spiegare perché nel frattempo quell’ipotesi di riforma è rimasta sulla carta nonostante i proponenti siano stati al governo per oltre la metà del tempo perduto, è segno non solo di mediocrità politica, ma anche è anche la premessa per andare incontro ad un fallimento certo. Tanto più se si commette lo stesso errore di tre lustri prima: indicare il punto di arrivo – ridurre le aliquote Irpef a due, al 23 % e 33% – senza calcolarne il costo e, di conseguenza, senza indicarne la copertura di bilancio.
Così come nel 1994 fu lanciato uno slogan – “meno tasse per tutti” – destinato a rimanere tale, così ora si è d’improvviso scoperto che è troppo pesante il carico fiscale che grava sulle spalle degli italiani, siano essi persone fisiche che giuridiche, e si è rilanciata l’idea, anzi il sogno – l’unica espressione che un uomo di governo non dovrebbe mai usare – di poterlo ridurre. Solo che contrariamente ad allora, quando la suggestione fu tenuta viva per molto tempo, anche dopo la campagna elettorale, questa volta il ministro dell’Economia – saggiamente – ha provveduto, con elegante fermezza, a smontare la panna nel giro di pochi giorni. Costringendo persino il premier a smentire clamorosamente se stesso con un laconico “non si può fare”.
Tutto bene, dunque? Per come si erano messe le cose, sì. Meglio che la cosa non si andata avanti, visto che non c’è neppure il minimo sentore che si voglia ragionare sui possibili tagli alla spesa corrente che sarebbero necessari a trovare le risorse per una riforma fiscale seria. E, di conseguenza, meglio che sia finita subito, altrimenti il tormentone avrebbe ammorbato la vita politica per chissà quanto tempo prima di finire nella classica bolla di sapone. Ma tutto questo non toglie che una riforma fiscale non sarebbe necessaria, anzi.
Senza bisogno di sposare la tesi liberista senza cui più le tasse sono basse più, per magica virtù, si allarga la base imponibile e lo Stato incassa – che ci sia un qualche rapporto proporzionale è ragionevole pensarlo, che sia automatico lo escluderei – è evidente che con una pressione fiscale che costringe a lavorare sei mesi per il fisco e altrettanti per ciascuno di noi, ridurre l’evasione e indurre gli investimenti è cosa impossibile, più che ardua. E che ci sia bisogno dell’una come dell’altra cosa, è noto anche i bambini.
Dunque, in realtà, noi avremmo bisogno delle seguenti cinque azioni: 1) semplificare l’attuale quadro normativo (esigere mille euro da 10 tasse da cento euro l’una non è la stessa cosa, sul piano pratico e psicologico, che esigerne una da mille o due da 500); 2) ridurre il carico fiscale complessivo, coordinando le tasse nazionali con quelle locali; 3) creare quanto più possibile il conflitto di interesse, attraverso la deducibilità, per far emergere il nero; 4) spostare l’asse della tassazione dal reddito ai consumi e alle rendite; 5) abbinare la tassazione del reddito a quella del patrimonio. Naturalmente le ultime due azioni nascono dall’esigenza di tener conto della realtà italiana, nella quale il reddito è sia basso che opaco – altrimenti non si spiegherebbe come sia possibile che ben 34,7 milioni su una platea di 40,7 milioni di contribuenti, cioè l’85%, stia in una fascia di reddito inferiore ai 30 mila euro annui (di cui 20,3 milioni sotto i 15 mila euro) – e molto alto è il livello di risparmio e di patrimonio (specie immobiliare) accumulato, se è vero che Bankitalia ha calcolato la ricchezza netta (senza i debiti) dei privati del 2008 pari a 8.280 miliardi, cioè 6,5 volte il pil (nel 2008 ammontava a 1.272,85 miliardi) o 7,6 volte il reddito disponibile (il pil al netto delle tasse, che sono state sempre in quell’anno 183,38 miliardi).
Non c’è dubbio che si tratterebbe di una vera e propria rivoluzione copernicana, e che in una prima fase la riforma così concepita produrrebbe una caduta di gettito di almeno un paio di punti di pil. Ma sarebbe una riforma vera e seria. La quale diventerebbe fattibile laddove fossero trovati quei 25-30 miliardi che costerebbe, cercandoli nella previdenza e nella sanità. Ma questo sì che è un sogno. Purtroppo.
Riproporre un’idea di 15 anni prima senza spiegare perché nel frattempo quell’ipotesi di riforma è rimasta sulla carta nonostante i proponenti siano stati al governo per oltre la metà del tempo perduto, è segno non solo di mediocrità politica, ma anche è anche la premessa per andare incontro ad un fallimento certo. Tanto più se si commette lo stesso errore di tre lustri prima: indicare il punto di arrivo – ridurre le aliquote Irpef a due, al 23 % e 33% – senza calcolarne il costo e, di conseguenza, senza indicarne la copertura di bilancio.
Così come nel 1994 fu lanciato uno slogan – “meno tasse per tutti” – destinato a rimanere tale, così ora si è d’improvviso scoperto che è troppo pesante il carico fiscale che grava sulle spalle degli italiani, siano essi persone fisiche che giuridiche, e si è rilanciata l’idea, anzi il sogno – l’unica espressione che un uomo di governo non dovrebbe mai usare – di poterlo ridurre. Solo che contrariamente ad allora, quando la suggestione fu tenuta viva per molto tempo, anche dopo la campagna elettorale, questa volta il ministro dell’Economia – saggiamente – ha provveduto, con elegante fermezza, a smontare la panna nel giro di pochi giorni. Costringendo persino il premier a smentire clamorosamente se stesso con un laconico “non si può fare”.
Tutto bene, dunque? Per come si erano messe le cose, sì. Meglio che la cosa non si andata avanti, visto che non c’è neppure il minimo sentore che si voglia ragionare sui possibili tagli alla spesa corrente che sarebbero necessari a trovare le risorse per una riforma fiscale seria. E, di conseguenza, meglio che sia finita subito, altrimenti il tormentone avrebbe ammorbato la vita politica per chissà quanto tempo prima di finire nella classica bolla di sapone. Ma tutto questo non toglie che una riforma fiscale non sarebbe necessaria, anzi.
Senza bisogno di sposare la tesi liberista senza cui più le tasse sono basse più, per magica virtù, si allarga la base imponibile e lo Stato incassa – che ci sia un qualche rapporto proporzionale è ragionevole pensarlo, che sia automatico lo escluderei – è evidente che con una pressione fiscale che costringe a lavorare sei mesi per il fisco e altrettanti per ciascuno di noi, ridurre l’evasione e indurre gli investimenti è cosa impossibile, più che ardua. E che ci sia bisogno dell’una come dell’altra cosa, è noto anche i bambini.
Dunque, in realtà, noi avremmo bisogno delle seguenti cinque azioni: 1) semplificare l’attuale quadro normativo (esigere mille euro da 10 tasse da cento euro l’una non è la stessa cosa, sul piano pratico e psicologico, che esigerne una da mille o due da 500); 2) ridurre il carico fiscale complessivo, coordinando le tasse nazionali con quelle locali; 3) creare quanto più possibile il conflitto di interesse, attraverso la deducibilità, per far emergere il nero; 4) spostare l’asse della tassazione dal reddito ai consumi e alle rendite; 5) abbinare la tassazione del reddito a quella del patrimonio. Naturalmente le ultime due azioni nascono dall’esigenza di tener conto della realtà italiana, nella quale il reddito è sia basso che opaco – altrimenti non si spiegherebbe come sia possibile che ben 34,7 milioni su una platea di 40,7 milioni di contribuenti, cioè l’85%, stia in una fascia di reddito inferiore ai 30 mila euro annui (di cui 20,3 milioni sotto i 15 mila euro) – e molto alto è il livello di risparmio e di patrimonio (specie immobiliare) accumulato, se è vero che Bankitalia ha calcolato la ricchezza netta (senza i debiti) dei privati del 2008 pari a 8.280 miliardi, cioè 6,5 volte il pil (nel 2008 ammontava a 1.272,85 miliardi) o 7,6 volte il reddito disponibile (il pil al netto delle tasse, che sono state sempre in quell’anno 183,38 miliardi).
Non c’è dubbio che si tratterebbe di una vera e propria rivoluzione copernicana, e che in una prima fase la riforma così concepita produrrebbe una caduta di gettito di almeno un paio di punti di pil. Ma sarebbe una riforma vera e seria. La quale diventerebbe fattibile laddove fossero trovati quei 25-30 miliardi che costerebbe, cercandoli nella previdenza e nella sanità. Ma questo sì che è un sogno. Purtroppo.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.