Dossier Iraq: che significa missione civile?
Gestito male e senza una linea
La sinistra incapace di stilare uno straccio di riflessione sui nostri interessi nazionalidi Davide Giacalone - 13 giugno 2006
Il dossier iracheno è gestito come peggio non si potrebbe. Prima il caos pacifista, poi l’intervento del ministro degli esteri: ci ritireremo in modo concordato con alleati ed autorità irachene. Bene, scrissi. Aggiunse: ritirati i militari non ci saranno missioni di civili, ma aiuteremo gli iracheni. Ovvia la prima cosa, ma in che consiste la seconda? Mistero. Fu la volta del Presidente della Repubblica, il quale ci tenne a sottolineare non solo che i militari italiani erano in Iraq in missione di pace, su specifico e preciso mandato dell’Onu, ma che a quelle missioni non ci si può e non ci si deve sottrarre. Ben detto, ma perché allo stesso uomo politico non è venuto in mente quando quelle missioni sono state decise, perché chi oggi lo applaude ieri le condannava?
Nel frattempo il governo dice che dall’Iraq ce ne andiamo, ma resteremo in Afghanistan, in Kosovo, ed in Bosnia. I nostri alleati non la prendono benissimo, ma ci lanciano subito la sfida: d’accordo, andate pure via, ma portate i vostri aerei da guerra a Kabul. Dove, per la cronaca, siamo presenti nell’ambito di una missione Nato. Pensiamoci, parliamone, dicono alla difesa ed agli esteri, ma il ministro Bonino è di parere opposto: più uomini e più armi in Afghanistan. Nel frattempo Parisi, con il nuovo berretto, corregge il tiro: dall’Iraq ce ne andiamo il più presto possibile, ed i militari non resteranno neanche nel caso ci siano dei civili da proteggere. Ma non era stato escluso che si lasciassero dei civili? Se li si lascia senza protezione li mandiamo al macello. Forse si ha in mente di chiedere agli americani di proteggere qualche Simona di turno, risultando patetici ancor prima che inaffidabili. Poi si parla anche di continuare ad addestrare la polizia irachena, ma di farlo in Kuwait, senza rendersi conto che questo moltiplicherebbe il rischio di essere attaccati, anche in Italia, perché individuati come anello debole, titubante, da spingere alla fuga.
Il tutto senza che vi sia uno straccio di riflessione sui nostri interessi nazionali. Noi in Iraq ci siamo andati, abbiamo fatto un buon lavoro, ci abbiamo lasciato dei morti e rischiamo di andarcene senza trarne profitto né politico né economico. Anzi, se il nostro ritiro dovesse malauguratamente coincidere con una ripresa di potenza e terreno del fondamentalismo assassino, possiamo scommettere che gli iracheni se ne ricorderanno a lungo. E scrivo questo, si badi, senza sentire minimamente il bisogno di citare i Rizzo, i Caruso o le Menapace, senza tirare in ballo l’estremismo antioccidentale. La materia non si presta alle spiritosaggini propagandistiche, ma il governo non può gestirla senza avere una linea univoca, ferma, scadenzata, indiscutibile. Io non la condividerò, ma sarei più tranquillo se esistesse.
www.davidegiacalone.it
Pubblicato su Libero del 13 giugno 2006
Nel frattempo il governo dice che dall’Iraq ce ne andiamo, ma resteremo in Afghanistan, in Kosovo, ed in Bosnia. I nostri alleati non la prendono benissimo, ma ci lanciano subito la sfida: d’accordo, andate pure via, ma portate i vostri aerei da guerra a Kabul. Dove, per la cronaca, siamo presenti nell’ambito di una missione Nato. Pensiamoci, parliamone, dicono alla difesa ed agli esteri, ma il ministro Bonino è di parere opposto: più uomini e più armi in Afghanistan. Nel frattempo Parisi, con il nuovo berretto, corregge il tiro: dall’Iraq ce ne andiamo il più presto possibile, ed i militari non resteranno neanche nel caso ci siano dei civili da proteggere. Ma non era stato escluso che si lasciassero dei civili? Se li si lascia senza protezione li mandiamo al macello. Forse si ha in mente di chiedere agli americani di proteggere qualche Simona di turno, risultando patetici ancor prima che inaffidabili. Poi si parla anche di continuare ad addestrare la polizia irachena, ma di farlo in Kuwait, senza rendersi conto che questo moltiplicherebbe il rischio di essere attaccati, anche in Italia, perché individuati come anello debole, titubante, da spingere alla fuga.
Il tutto senza che vi sia uno straccio di riflessione sui nostri interessi nazionali. Noi in Iraq ci siamo andati, abbiamo fatto un buon lavoro, ci abbiamo lasciato dei morti e rischiamo di andarcene senza trarne profitto né politico né economico. Anzi, se il nostro ritiro dovesse malauguratamente coincidere con una ripresa di potenza e terreno del fondamentalismo assassino, possiamo scommettere che gli iracheni se ne ricorderanno a lungo. E scrivo questo, si badi, senza sentire minimamente il bisogno di citare i Rizzo, i Caruso o le Menapace, senza tirare in ballo l’estremismo antioccidentale. La materia non si presta alle spiritosaggini propagandistiche, ma il governo non può gestirla senza avere una linea univoca, ferma, scadenzata, indiscutibile. Io non la condividerò, ma sarei più tranquillo se esistesse.
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Pubblicato su Libero del 13 giugno 2006
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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.