Cosa fare adesso? Ripensiamo la riforma
Forme da rivedere
I tre gravi errori del governo sulle politiche energetichedi Enrico Cisnetto - 11 marzo 2011
La riforma del sistema di incentivazione delle fonti energetiche rinnovabili era necessaria? Sì. Il decreto legislativo che ha ottenuto faticosamente la firma del presidente della Repubblica risolve i problemi? No. Volendo schematizzare, è questo il giudizio più appropriato sulla manovra che riguarda uno dei pochi settori produttivi che si è sviluppato negli ultimi anni, anche in vigenza della recessione. Il provvedimento, sostanzialmente liquidatorio, è infatti viziato da un triplo errore: di approccio, di metodo e di merito.
Il primo discende da un’errata valutazione, e cioè l’idea che in Italia si fosse formata una vera e propria “bolla speculativa”, e che dunque l’intero mondo delle energie verdi dovesse essere mondato dai suoi peccati capitali. E’ vero, invece, che fossimo in presenza tre eccessi: di sussidi, di fotovoltaico a terra (anziché sui tetti degli edifici, come è per esempio in Germania, che pure vanta un peso delle rinnovabili cinque volte superiore al nostro), e di abusi e attività illecite. Tutte cose che andavano (andrebbero) sanate, senza per questo “buttar via il bambino con l’acqua sporca”.
Una seconda erronea valutazione della realtà derivava anche dall’idea, diffusa a livello di opinione pubblica ma che certo non può appartenere al legislatore, che quando si parla di settore sussidiato s’intenda a carico del bilancio dello Stato. Così non è, visto che gli incentivi sono totalmente ricavati dalla bolletta elettrica pagata dai consumatori e non pesano per un centesimo sulla finanza pubblica. E qui siamo al terzo pregiudizio infondato: che i 3,8 miliardi che rappresentano l’intero onere tariffario a carico degli italiani, siano interamente usati per eolico e solare. Peccato, invece, che ad essi vadano rispettivamente il 14% e il 10% di quella cifra effettivamente monstre, per un totale di 900 milioni. Troppi? Può darsi, tutto è relativo.
E allora per giudicare, va visto chi acchiappa gli altri 2,9 miliardi: oltre 1 miliardo va al biogas (40%), alle biomasse (23%) e al riciclo dei rifiuti (37%); 630 milioni vanno ad un settore così consolidato che non dovrebbe più essere incentivato come l’idroelettrico; briciole (poco più di 200 milioni in totale) vanno alla geotermia e alla cogenerazione combinata col teleriscaldamento. Rimane infine ben 1 miliardo, che va alle cosiddette “assimilate”, cioè a quei sistemi di incentivazione detti Cip 6 (cogenerazione; calore recuperabile dai fumi di scarico e da impianti termici, elettrici o da processi industriali; impianti che usano gli scarti di lavorazione; termovalorizzatori) dal 1992 prevalentemente a vantaggio dei grandi gruppi petroliferi. Se il quadro è questo, vale la pena di tagliare solo laddove è allocato il 24% dei sussidi? La risposta è fin troppo scontata.
C’è poi un inaccettabile errore di metodo nell’intervento “risanatore” del governo. Ed è l’erraticità degli orientamenti e quindi delle decisioni. Non mi riferisco solo alle diverse opinioni che albergano nell’esecutivo e nella maggioranza, differenze di cui abbiamo avuto plastica rappresentazione in questi giorni fino alla minaccia di mettere in minoranza il governo, ma anche e soprattutto al fatto che una riconferma degli incentivi e una loro seppur parziale revisione c’era già stata qualche tempo fa da parte di questo governo.
Ora, come si può cambiare le carte in tavola in corso d’opera? Come si fa a non considerare le ricadute negative in termini imprenditoriali (molte società sono quotate in Borsa) e occupazionali, sia quelle dirette derivanti dal provvedimento ma anche quelle derivanti dagli effetti scoraggiamento agli investimenti che questa erraticità genera? Va da sé che tutti i quesiti sollevati portano a formulare un giudizio negativo anche nel merito del provvedimento. Cosa fare, dunque? Occorre ripensare la riforma, e facendo salva la certezza del diritto individuare strumenti più efficaci per la determinazione dei sussidi e la correzione delle storture, a cominciare dalla procedura delle autorizzazioni, che va regolamentata per evitare l’anomalo mercato delle stesse, che oggi è la principale causa dei fenomeni deteriori che il settore ha avuto. Per questo un segnale in tale direzione significherebbe introdurre trasparenza e porre fine alle speculazioni. Poi occorre rendere graduale sia l’autorizzazione di nuove potenze da installare, al fine di linearizzarne l’impatto, sia il cambiamento della legislazione (per evitare che impianti finanziati e avviati sotto un certo regime normativo vengano terminati con un altro). Infine, occorre depurare gli incentivi da costi burocratici e amministrativi inutili (tempi di attesa lunghi e gravi incertezze procedurali). Insomma, vanno riviste tutte le forme di incentivazione, privilegiando quelle che portano reali benefici all’ambiente, vanno tutelati gli investimenti avviati e creato un periodo transitorio ragionevole sia sotto il profilo della durata che del cambiamento normativo. E’ così difficile? Speriamo nella saggezza dei decreti attuativi. Enrico Cisnetto
Il primo discende da un’errata valutazione, e cioè l’idea che in Italia si fosse formata una vera e propria “bolla speculativa”, e che dunque l’intero mondo delle energie verdi dovesse essere mondato dai suoi peccati capitali. E’ vero, invece, che fossimo in presenza tre eccessi: di sussidi, di fotovoltaico a terra (anziché sui tetti degli edifici, come è per esempio in Germania, che pure vanta un peso delle rinnovabili cinque volte superiore al nostro), e di abusi e attività illecite. Tutte cose che andavano (andrebbero) sanate, senza per questo “buttar via il bambino con l’acqua sporca”.
Una seconda erronea valutazione della realtà derivava anche dall’idea, diffusa a livello di opinione pubblica ma che certo non può appartenere al legislatore, che quando si parla di settore sussidiato s’intenda a carico del bilancio dello Stato. Così non è, visto che gli incentivi sono totalmente ricavati dalla bolletta elettrica pagata dai consumatori e non pesano per un centesimo sulla finanza pubblica. E qui siamo al terzo pregiudizio infondato: che i 3,8 miliardi che rappresentano l’intero onere tariffario a carico degli italiani, siano interamente usati per eolico e solare. Peccato, invece, che ad essi vadano rispettivamente il 14% e il 10% di quella cifra effettivamente monstre, per un totale di 900 milioni. Troppi? Può darsi, tutto è relativo.
E allora per giudicare, va visto chi acchiappa gli altri 2,9 miliardi: oltre 1 miliardo va al biogas (40%), alle biomasse (23%) e al riciclo dei rifiuti (37%); 630 milioni vanno ad un settore così consolidato che non dovrebbe più essere incentivato come l’idroelettrico; briciole (poco più di 200 milioni in totale) vanno alla geotermia e alla cogenerazione combinata col teleriscaldamento. Rimane infine ben 1 miliardo, che va alle cosiddette “assimilate”, cioè a quei sistemi di incentivazione detti Cip 6 (cogenerazione; calore recuperabile dai fumi di scarico e da impianti termici, elettrici o da processi industriali; impianti che usano gli scarti di lavorazione; termovalorizzatori) dal 1992 prevalentemente a vantaggio dei grandi gruppi petroliferi. Se il quadro è questo, vale la pena di tagliare solo laddove è allocato il 24% dei sussidi? La risposta è fin troppo scontata.
C’è poi un inaccettabile errore di metodo nell’intervento “risanatore” del governo. Ed è l’erraticità degli orientamenti e quindi delle decisioni. Non mi riferisco solo alle diverse opinioni che albergano nell’esecutivo e nella maggioranza, differenze di cui abbiamo avuto plastica rappresentazione in questi giorni fino alla minaccia di mettere in minoranza il governo, ma anche e soprattutto al fatto che una riconferma degli incentivi e una loro seppur parziale revisione c’era già stata qualche tempo fa da parte di questo governo.
Ora, come si può cambiare le carte in tavola in corso d’opera? Come si fa a non considerare le ricadute negative in termini imprenditoriali (molte società sono quotate in Borsa) e occupazionali, sia quelle dirette derivanti dal provvedimento ma anche quelle derivanti dagli effetti scoraggiamento agli investimenti che questa erraticità genera? Va da sé che tutti i quesiti sollevati portano a formulare un giudizio negativo anche nel merito del provvedimento. Cosa fare, dunque? Occorre ripensare la riforma, e facendo salva la certezza del diritto individuare strumenti più efficaci per la determinazione dei sussidi e la correzione delle storture, a cominciare dalla procedura delle autorizzazioni, che va regolamentata per evitare l’anomalo mercato delle stesse, che oggi è la principale causa dei fenomeni deteriori che il settore ha avuto. Per questo un segnale in tale direzione significherebbe introdurre trasparenza e porre fine alle speculazioni. Poi occorre rendere graduale sia l’autorizzazione di nuove potenze da installare, al fine di linearizzarne l’impatto, sia il cambiamento della legislazione (per evitare che impianti finanziati e avviati sotto un certo regime normativo vengano terminati con un altro). Infine, occorre depurare gli incentivi da costi burocratici e amministrativi inutili (tempi di attesa lunghi e gravi incertezze procedurali). Insomma, vanno riviste tutte le forme di incentivazione, privilegiando quelle che portano reali benefici all’ambiente, vanno tutelati gli investimenti avviati e creato un periodo transitorio ragionevole sia sotto il profilo della durata che del cambiamento normativo. E’ così difficile? Speriamo nella saggezza dei decreti attuativi. Enrico Cisnetto
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.