Ridurre spesa pubblica e pressione fiscale
Fisco: un divario insanabile
Solo un nuovo patto sociale potrà ricucire lo strappo tra Stato e cittadinidi Enrico Cisnetto - 24 ottobre 2007
Non è soltanto una questione estetica, dunque. La bella indagine dell’Osservatorio sul Nord-Est pubblicata ieri dal Gazzettino, riguardante la “questione fiscale”, descrive perfettamente quello che sembra uno iato ormai insanabile, per lo meno in alcune zone d’Italia, tra lo Stato e i suoi cittadini. Il fatto che più di due cittadini su tre, tra Friuli e Veneto, si dichiarino favorevoli allo “sciopero” dei tributi fa capire che non si può più liquidare l’argomento come un problema di gusti necessariamente diversi tra chi, come il ministro Tommaso Padoa-Schioppa, dice che le tasse sono bellissime, e chi invece vorrebbe liquidarle tutte da un giorno all’altro, magari perchè non le ha mai pagate. Anche perché il dato più significativo dell’indagine risiede nella trasversalità politica della protesta: è scontato che nel centrodestra l’81,6% si dica favorevole allo “sciopero fiscale”, meno scontato (anche se non del tutto sorprendente, a ben pensarci, vista la cultura “antagonista” allo Stato) è invece che nel centrosinistra a sostenere la pesantezza del fisco sia un elettore su due di Rifondazione comunista. Così come è degno di nota che la fascia di età maggiormente ostile alle tasse siano proprio i “bamboccioni” di Padoa-Schioppa e che, nella divisione per mestieri, primeggino imprenditori e lavoratori autonomi seguiti da casalinghe e operai: questo significa che sono le nuove generazioni a non riconoscere maggiormente il ruolo dello Stato e a ritenere incompiuto lo scambio tra tasse e servizi che il settore pubblico dovrebbe offrire.
Inutile girarci intorno: sic stantibus rebus, il divario è insanabile. Ma forse è possibile andare un po’ più a fondo, tentando una scomposizione sociologica del gruppo dei “no tax”. Allora, una parte di queste persone hanno una ostilità endemica, vivono in quella cultura della deresponsabilizzazione che dice “è giusto non pagare le tasse perchè sono inique” e se ne frega se con il prelievo fiscale – cioè con il contributo di tutti ad una causa comune – dal dopoguerra in poi si è ricostruito il Paese e si sono fatti diventare gli italiani un popolo di benestanti come in poche altri parti del mondo. Questi sono irrecuperabili, se domani ci fosse una forte riduzione del prelievo non cambierebbero atteggiamento. Ma sono anche una netta minoranza rispetto al totale. Il grosso sono gli altri, quelli che oggi vivono male la realtà di una pressione fiscale in continuo aumento – quasi due punti percentuali in un anno – ma sono pronti a cambiare idea se qualcuno gli indica una via virtuosa, in cui meno tasse non significa meno solidarietà ma più crescita economica. Costoro, però, dovrebbero essere aiutati a non far suggestionare dagli slogan, dal credere che è tutta colpa di “Roma ladrona”. Per esempio, dovrebbero cominciare a riflettere sul fatto che dal 1995 al 2006, mentre le tasse nazionali sono aumentate del 12%, quelle locali sono cresciute del 111%. E che, come il Libro Verde del Tesoro ha dimostrato, negli enti locali è annidato il maggior grado di inefficienza della spesa pubblica.
Servono a qualcosa le province? Ha senso che in Italia ci siano 8 mila comuni? E perchè le regioni non hanno un estensione paragonabile a quella dei lander tedeschi? Comunità montane e altri enti simili hanno una funzione? Basterebbe mettere mano ad una semplificazione del pletorico assetto istituzionale italiano, naturalmente Roma compresa, per risparmiare almeno 100 miliardi di euro, due volte e mezzo la Finanziaria monstre dell’anno scorso. E il clamoroso ritardo nelle infrastrutture, che il Veneto paga più di ogni altra cosa, non deriva forse da un localismo esasperato, da un effetto nimby elevato a cultura politica? Dico tutto questo perchè una cosa deve essere chiara: una minore (op)pressione fiscale, sia in termini di riduzione del carico sia prima ancora come semplificazione delle procedure, è inscindibile dal taglio della spesa pubblica, nazionale e ancor più locale. Eurostat solo pochi giorni fa ci ha ricordato che lo scorso anno il rapporto spesa-pil è salito al 50,1%, dal 48,3% del 2005. Dunque, cari amici che avete voglia di fare lo “sciopero fiscale”, sappiate non ci può essere una riduzione della pressione fiscale forte e duratura senza una preventiva, o quantomeno contemporanea, riduzione della spesa pubblica. E non la raschiatura del barile dei piccoli sprechi – per carità, anche quelli vanno combattuti – ma il taglio dei grandi rami secchi. Chi dice il contrario, promettendo miracoli fiscali senza dire dove taglierà la spesa, fa soltanto squallida demagogia. Un nuovo patto sociale: ecco l’unico modo per risanare la frattura tra Stato e cittadini.
Pubblicato su il Gazzettino di mercoledì 24
Inutile girarci intorno: sic stantibus rebus, il divario è insanabile. Ma forse è possibile andare un po’ più a fondo, tentando una scomposizione sociologica del gruppo dei “no tax”. Allora, una parte di queste persone hanno una ostilità endemica, vivono in quella cultura della deresponsabilizzazione che dice “è giusto non pagare le tasse perchè sono inique” e se ne frega se con il prelievo fiscale – cioè con il contributo di tutti ad una causa comune – dal dopoguerra in poi si è ricostruito il Paese e si sono fatti diventare gli italiani un popolo di benestanti come in poche altri parti del mondo. Questi sono irrecuperabili, se domani ci fosse una forte riduzione del prelievo non cambierebbero atteggiamento. Ma sono anche una netta minoranza rispetto al totale. Il grosso sono gli altri, quelli che oggi vivono male la realtà di una pressione fiscale in continuo aumento – quasi due punti percentuali in un anno – ma sono pronti a cambiare idea se qualcuno gli indica una via virtuosa, in cui meno tasse non significa meno solidarietà ma più crescita economica. Costoro, però, dovrebbero essere aiutati a non far suggestionare dagli slogan, dal credere che è tutta colpa di “Roma ladrona”. Per esempio, dovrebbero cominciare a riflettere sul fatto che dal 1995 al 2006, mentre le tasse nazionali sono aumentate del 12%, quelle locali sono cresciute del 111%. E che, come il Libro Verde del Tesoro ha dimostrato, negli enti locali è annidato il maggior grado di inefficienza della spesa pubblica.
Servono a qualcosa le province? Ha senso che in Italia ci siano 8 mila comuni? E perchè le regioni non hanno un estensione paragonabile a quella dei lander tedeschi? Comunità montane e altri enti simili hanno una funzione? Basterebbe mettere mano ad una semplificazione del pletorico assetto istituzionale italiano, naturalmente Roma compresa, per risparmiare almeno 100 miliardi di euro, due volte e mezzo la Finanziaria monstre dell’anno scorso. E il clamoroso ritardo nelle infrastrutture, che il Veneto paga più di ogni altra cosa, non deriva forse da un localismo esasperato, da un effetto nimby elevato a cultura politica? Dico tutto questo perchè una cosa deve essere chiara: una minore (op)pressione fiscale, sia in termini di riduzione del carico sia prima ancora come semplificazione delle procedure, è inscindibile dal taglio della spesa pubblica, nazionale e ancor più locale. Eurostat solo pochi giorni fa ci ha ricordato che lo scorso anno il rapporto spesa-pil è salito al 50,1%, dal 48,3% del 2005. Dunque, cari amici che avete voglia di fare lo “sciopero fiscale”, sappiate non ci può essere una riduzione della pressione fiscale forte e duratura senza una preventiva, o quantomeno contemporanea, riduzione della spesa pubblica. E non la raschiatura del barile dei piccoli sprechi – per carità, anche quelli vanno combattuti – ma il taglio dei grandi rami secchi. Chi dice il contrario, promettendo miracoli fiscali senza dire dove taglierà la spesa, fa soltanto squallida demagogia. Un nuovo patto sociale: ecco l’unico modo per risanare la frattura tra Stato e cittadini.
Pubblicato su il Gazzettino di mercoledì 24
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.