La magistratura torna a dettare le regole
Fiorani, cade la Seconda Repubblica
Il terzo scandalo bancario è frutto di un sistema di potere politico-economico malatodi Enrico Cisnetto - 16 dicembre 2005
E’ inutile girarci intorno, siamo di fronte al terzo (in ordine temporale) scandalo bancario nella storia della Repubblica: dopo la Banca Privata di Michele Sindona e il Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, adesso anche la Banca Popolare Italiana, ex Lodi, entra a far parte della terribile casistica. Per ora il “salvataggio” della Bpi ha assunto caratteristiche solo manageriali – l’arrivo di Divo Gronchi alla guida della banca, al posto di Gianpiero Fiorani – ma appena sarà finita la buriana giudiziaria, ci si dovrà occupare della sua sistemazione anche dal punto di vista proprietario. Capisco che questo giudizio possa sembrare brutale, ma purtroppo quando, al di là delle perdite registrate dal gruppo bancario lodigiano, si inficia il rapporto fiduciario che lega il correntista che affida i propri risparmi con la banca che li accoglie e li gestisce – come è nel caso specifico, visto che Fiorani è reo confesso di aver prelevato denaro direttamente dai depositi – altro non può definirsi che uno scandalo bancario. E, si badi bene, si tratta della cosa peggiore che possa capitare in un sistema economico, perchè proprio su quella fiducia si basano le fondamenta del sistema stesso (non a caso in tutto il mondo le autorità monetarie e politiche cercano in tutti i modi di evitare il fallimento degli istituti di credito).
Naturalmente, tutto sarebbe decisamente meno significativo se fossimo di fronte ad un puro e semplice caso di arricchimento personale. Invece è del tutto evidente (ma lo era anche prima del precipitare delle cose) che la doppia opa su Antonveneta e Bnl e il maldestro tentativo di scalata al Corriere fanno parte di un disegno organico – la cui mente non può essere quella del furbastro ma modesto ragioniere di Lodi – destinato a creare un vero e proprio sistema di potere (come fu per Sindona e Calvi). Attenzione, qui è bene chiarire subito che sarebbe un errore correre troppo con la fantasia: non siamo di fronte alle sofisticate architetture di Enrico Cuccia, ma molto più modestamente a “furbetti” che, intravisti gli spazi di potere vuoti aperti dalla crisi del vecchio establishment creato da e intorno a Mediobanca, hanno pensato bene di riempirli. L’idea, visto che i segni evidenti della crisi del “salotto buono” risalgono alla fine degli anni Novanta, non nasce certo con queste ultime operazioni. Ma il “concerto” sì. In precedenza, Fiorani aveva speso cinque anni per creare un gruppo creditizio di dimensioni nazionali, assemblando nientemeno che 21 banche, stringendo alleanze e cercando coperture politico-istituzionali, a cominciare da quella ormai stranota con il Governatore della Banca d’Italia. L’alleanza più importante è quella con Chicco Gnutti, che gli porta in dote anche il rapporto con la Unipol di Giovanni Consorte. La cosa è importante sia perchè il patron della Hopa ha la testa fina (vedi Telecom), sia perchè via Consorte si arriva a costituire a sinistra il pendant di quelle coperture politiche che Fiorani era stato capace di costruirsi a destra (prima con Berlusconi via Ubaldo Livolsi e via lo stesso Gnutti, che vanta tra i suoi soci la Fininvest, poi con la Lega). Una rete che prima si muove su Antonveneta (l’operazione parte sei mesi prima del lancio dell’opa) e che poi si butta su Bnl dopo la decisione di Francesco Gaetano Caltagirone di uscire da una partita che non era più quella operazione di mercato che aveva pensato. Una doppia opa a regia unica cui si aggiunge, non senza qualche tratto folkloristico, la scalata alla Rcs (l’opa più preannunciata e mai lanciata della storia) della new entry Stefano Ricucci. Ma il mix tra sottovalutazione degli ex “poteri forti” – che sono deboli e divisi, ma non fino al punto di farsi fregare da quattro presuntuosi arroganti – e la sopravvalutazione del peso reale delle coperture politico-istituzionali – Fazio era già azzoppato, Berlusconi li ha benedetti ma non si è speso, mentre la guerra sorda dentro i Ds e più in generale nel centro-sinistra ha reso fragile quella sponda – ha fatto sì che il “grande disegno” s’infrangesse miseramente contro la saldatura (momentanea) di interessi avversi, dal patto di sindacato del Corriere della Sera alla magistratura milanese vogliosa di riconquistare il centro del ring passando per capitali stranieri ben rappresentati a Bruxelles.
Se questo è lo scenario, denunciare la dimensione sistemica del fenomeno che tiene “banco” nella cronaca di questi giorni non significa né sottovalutare i meccanismi perversi dell’orologio giudiziario che sta scandendo l’inchiesta milanese – identici, per tempi, modi e logiche, della stagione di Mani Pulite: basti pensare all’arresto “postumo” di Fiorani – né, tantomeno, alimentare la voglia di gogna che sempre emerge in questi casi. Ma proprio per evitare che il recente passato ritorni – il Paese, già in pieno declino, non sopporterebbe una nuova stagione giudiziaria – occorre avere piena consapevolezza della portata strutturale della questione. La quale, contrariamente agli strali alzati dal solito rito della indignazione collettiva che si recita in situazioni come queste, non riguarda la portata del caso in sé – e neppure suoi eventuali sviluppi ulteriori, che peraltro appaiono piuttosto probabili – quanto, invece, le conseguenze “politiche” che esso è destinato a generare. E non mi riferisco ai “soldi ai politici”, che è la morbosità di queste ore (destinata ad essere delusa: scommetto che i nomi saranno di secondo piano). Parlo di almeno tre grandi deficit che finiranno per spingere ancora più alla deriva il Paese: l’impossibilità che si crei un nuovo establishment economico-finanziario, e con esso assetti diversi del nostro capitalismo; la riduzione delle chances, già scarse, che si metta mano ad un progetto-paese il cui fulcro sia un nuovo modello di sviluppo; il crollo “sanguinoso” del bipolarismo.
Insomma, il problema non è che potere economico e potere politico si siano ancora una volta incrociati – qui ha ragione Giuliano Ferrara: è fisiologico, e chi dice il contrario o è sciocco o è ipocrita – ma sta nel valore (infimo) dei protagonisti, nel comportamento (autolesionista) di Bankitalia, e soprattutto nel vuoto pneumatico della Politica. Sì, credo proprio che attraverso questa vicenda si scriverà il certificato di morte della Seconda Repubblica – ed è un bene – ma che, ancora una volta a dettarlo sarà la magistratura, come nel 1992-1994, e che il Paese faticherà più di quanto già non sia a trovare il bandolo della matassa del declino economico e della crisi del sistema politico. Alle porte bussa una campagna elettorale che solo formalmente contrapporrà le due coalizioni del nostro sgangherato bipolarismo, ma che in realtà sarà una guerra fratricida dentro i poli, come le polemiche su Unipol fanno presagire a sinistra ma che le confessioni di Fiorani dal carcere possono sicuramente aprire anche a destra.
Evito di stilare la lista delle responsabilità, ora non serve. Spero solo che chi ha ancora un briciola di cervello lo usi. Ma, confesso, è una speranza assai flebile.
Pubblicato sul Foglio del 16 dicembre 2005
Naturalmente, tutto sarebbe decisamente meno significativo se fossimo di fronte ad un puro e semplice caso di arricchimento personale. Invece è del tutto evidente (ma lo era anche prima del precipitare delle cose) che la doppia opa su Antonveneta e Bnl e il maldestro tentativo di scalata al Corriere fanno parte di un disegno organico – la cui mente non può essere quella del furbastro ma modesto ragioniere di Lodi – destinato a creare un vero e proprio sistema di potere (come fu per Sindona e Calvi). Attenzione, qui è bene chiarire subito che sarebbe un errore correre troppo con la fantasia: non siamo di fronte alle sofisticate architetture di Enrico Cuccia, ma molto più modestamente a “furbetti” che, intravisti gli spazi di potere vuoti aperti dalla crisi del vecchio establishment creato da e intorno a Mediobanca, hanno pensato bene di riempirli. L’idea, visto che i segni evidenti della crisi del “salotto buono” risalgono alla fine degli anni Novanta, non nasce certo con queste ultime operazioni. Ma il “concerto” sì. In precedenza, Fiorani aveva speso cinque anni per creare un gruppo creditizio di dimensioni nazionali, assemblando nientemeno che 21 banche, stringendo alleanze e cercando coperture politico-istituzionali, a cominciare da quella ormai stranota con il Governatore della Banca d’Italia. L’alleanza più importante è quella con Chicco Gnutti, che gli porta in dote anche il rapporto con la Unipol di Giovanni Consorte. La cosa è importante sia perchè il patron della Hopa ha la testa fina (vedi Telecom), sia perchè via Consorte si arriva a costituire a sinistra il pendant di quelle coperture politiche che Fiorani era stato capace di costruirsi a destra (prima con Berlusconi via Ubaldo Livolsi e via lo stesso Gnutti, che vanta tra i suoi soci la Fininvest, poi con la Lega). Una rete che prima si muove su Antonveneta (l’operazione parte sei mesi prima del lancio dell’opa) e che poi si butta su Bnl dopo la decisione di Francesco Gaetano Caltagirone di uscire da una partita che non era più quella operazione di mercato che aveva pensato. Una doppia opa a regia unica cui si aggiunge, non senza qualche tratto folkloristico, la scalata alla Rcs (l’opa più preannunciata e mai lanciata della storia) della new entry Stefano Ricucci. Ma il mix tra sottovalutazione degli ex “poteri forti” – che sono deboli e divisi, ma non fino al punto di farsi fregare da quattro presuntuosi arroganti – e la sopravvalutazione del peso reale delle coperture politico-istituzionali – Fazio era già azzoppato, Berlusconi li ha benedetti ma non si è speso, mentre la guerra sorda dentro i Ds e più in generale nel centro-sinistra ha reso fragile quella sponda – ha fatto sì che il “grande disegno” s’infrangesse miseramente contro la saldatura (momentanea) di interessi avversi, dal patto di sindacato del Corriere della Sera alla magistratura milanese vogliosa di riconquistare il centro del ring passando per capitali stranieri ben rappresentati a Bruxelles.
Se questo è lo scenario, denunciare la dimensione sistemica del fenomeno che tiene “banco” nella cronaca di questi giorni non significa né sottovalutare i meccanismi perversi dell’orologio giudiziario che sta scandendo l’inchiesta milanese – identici, per tempi, modi e logiche, della stagione di Mani Pulite: basti pensare all’arresto “postumo” di Fiorani – né, tantomeno, alimentare la voglia di gogna che sempre emerge in questi casi. Ma proprio per evitare che il recente passato ritorni – il Paese, già in pieno declino, non sopporterebbe una nuova stagione giudiziaria – occorre avere piena consapevolezza della portata strutturale della questione. La quale, contrariamente agli strali alzati dal solito rito della indignazione collettiva che si recita in situazioni come queste, non riguarda la portata del caso in sé – e neppure suoi eventuali sviluppi ulteriori, che peraltro appaiono piuttosto probabili – quanto, invece, le conseguenze “politiche” che esso è destinato a generare. E non mi riferisco ai “soldi ai politici”, che è la morbosità di queste ore (destinata ad essere delusa: scommetto che i nomi saranno di secondo piano). Parlo di almeno tre grandi deficit che finiranno per spingere ancora più alla deriva il Paese: l’impossibilità che si crei un nuovo establishment economico-finanziario, e con esso assetti diversi del nostro capitalismo; la riduzione delle chances, già scarse, che si metta mano ad un progetto-paese il cui fulcro sia un nuovo modello di sviluppo; il crollo “sanguinoso” del bipolarismo.
Insomma, il problema non è che potere economico e potere politico si siano ancora una volta incrociati – qui ha ragione Giuliano Ferrara: è fisiologico, e chi dice il contrario o è sciocco o è ipocrita – ma sta nel valore (infimo) dei protagonisti, nel comportamento (autolesionista) di Bankitalia, e soprattutto nel vuoto pneumatico della Politica. Sì, credo proprio che attraverso questa vicenda si scriverà il certificato di morte della Seconda Repubblica – ed è un bene – ma che, ancora una volta a dettarlo sarà la magistratura, come nel 1992-1994, e che il Paese faticherà più di quanto già non sia a trovare il bandolo della matassa del declino economico e della crisi del sistema politico. Alle porte bussa una campagna elettorale che solo formalmente contrapporrà le due coalizioni del nostro sgangherato bipolarismo, ma che in realtà sarà una guerra fratricida dentro i poli, come le polemiche su Unipol fanno presagire a sinistra ma che le confessioni di Fiorani dal carcere possono sicuramente aprire anche a destra.
Evito di stilare la lista delle responsabilità, ora non serve. Spero solo che chi ha ancora un briciola di cervello lo usi. Ma, confesso, è una speranza assai flebile.
Pubblicato sul Foglio del 16 dicembre 2005
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.