I risultati delle elezioni in Sicilia
Falsi vincitori
Volete sapere la verità? Gli italiani sono stanchi di farsi raccontare la favoletta del lupo cattivodi Enrico Cisnetto - 02 novembre 2012
Sicilia, Italia. La Regione, che per molti versi esalta di più i difetti della nazione intera, è andata a votare essendo sull’orlo del default finanziario e dalle urne ne è uscita l’ingovernabilità. Il Paese, che dall’orlo del precipizio si è spostato appena e che deve decidere se chiedere aiuto alla Bce per essere salvato (in cambio della cessione di sovranità), alle urne sta per andarci e rischia di fare la stessa fine.
Motivo? In entrambi i casi nella campagna elettorale è stato bandito l’incombente fallimento e dunque non si parla del modo con cui evitarlo. Il tema, a Palermo come a Roma, è solo uno: come vincere le elezioni. O meglio, come impedire che siano gli altri a prevalere: “uniamoci contro la sinistra”, “sbarriamo la strada al ritorno di Berlusconi e dei berlusconidi”, sono i soli argomenti usati. Senza dire, ma soprattutto senza sapere, come diavolo si userà l’eventuale vittoria. La quale, inevitabilmente, non arriva. Perché gli italiani, che abitino in Sicilia o nel profondo Nord, si sono rotti di sentirsi raccontare la storiella del lupo cattivo, del nemico da abbattere, mentre le loro condizioni di vita – anche solo sotto il profilo psicologico – peggiorano a vista d’occhio. E o non vanno più ai seggi, oppure ci vanno per votare la lista più anti-sistema che ci sia: sommando il 52,58% di astenuti con il 18,2% di suffragi andati al candidato di Grillo (calcolati sul 100% degli aventi diritto al voto fa 8,63%) si arriva al 61,21% dei siciliani che hanno voluto lasciare all’insieme di tutti gli altri partiti (compresi quelli che non hanno superato lo sbarramento) soltanto il 38,79 dei suffragi. Così Rosario Crocetta che è risultato primo, non solo ha 40 seggi su 90 e quindi non ha vinto un fico secco, ma conta solo sul consenso del 14,4% dei siciliani con diritto di voto. E il Pd che con il suo 13,4% canta vittoria – dimenticando che comunque il primo partito è il movimento 5 stelle – in realtà è votato solo da un siciliano su sedici. Peggio ancora il Pdl.
Ora, nella Regione che spende 1,7 miliardi l’anno per pagare dieci volte di più che nelle altre regioni i propri dipendenti, l’alternativa è secca: o si portano i libri in tribunale, e di conseguenza si va al commissariamento, o si preferisce evitarlo, tirando a campare come è stato fin qui, e allora non è difficile pronosticare che il governo regionale, potendosi creare solo con alleanze che in campagna elettorale erano tassativamente escluse, finirà col passare da due o tre crisi prima che il presidente si dimetta, tornando ad elezioni anticipate. E se non vorrà farlo la Sicilia diverrà una polveriera sociale pronta ad esplodere.
A Roma si rischia di fare come a Palermo. Andiamo a votare, non importa se a febbraio o ad aprile, ma sappiamo già che dalle urne – disertate da un italiano su due – uscirà un falso vincitore, che avrà la maggioranza alla Camera ma non al Senato (cioè non potrà formare un governo) se resta l’attuale legge elettorale, e neppure quella se la modalità di conteggio dei voti dovesse cambiare (nel caso, sempre più remoto, non potrà che essere in senso meno maggioritario). Nel frattempo il governo Monti dovrà decidere se lasciare a chi verrà dopo (presumibilmente esso stesso) la decisione se lanciare l’help alla Bce o se farlo prima, condizionando in modo vincolante chi dovesse per caso vincere davvero la contesa elettorale. Con la buona probabilità che qualche istituzione alzi la mano e contesti le imposizioni di cui l’eventuale prestito di Francoforte sarebbe corredato. Avete visto la Corte dei Conti greca che ieri ha bocciato (per incostituzionalità) la riforma delle pensioni varata dal governo sotto dettatura della “troika”? Ecco, una cosa del genere.
In questa situazione, così come sarebbe stato necessario che in Sicilia le forze dotate di senso di responsabilità (avendocene) dicessero che bisognava decidere prima del voto se dichiarare bancarotta e come gestirla (è successo anche in California, non è mica crollato il mondo!), allo stesso modo ora sarebbe opportuno che il dibattito politico nazionale uscisse dai recinti (sempre più angusti) dei partiti e delle loro primarie (per fare che?) e prendesse il toro per le corna. Se lo spread continua a muoversi a quota 350 e può solo salire (l’effetto Draghi è ormai pienamente assorbito), se le nostre banche non hanno del tutto superato la fase acuta delle loro difficoltà, cosa conviene fare, aspettare che le cose peggiorino o bussare alla porta della Bce oggi che i fumi di un’inutile (peggio, dannosa) campagna elettorale non sono ancora così evidenti?
Caro presidente Monti, lei che (finora) si è chiamato fuori dalle elezioni e dal “dopo” – a mio avviso sbagliando, ma questo tema sarò oggetto di una prossima riflessione – non pensa che sarebbe opportuno rappresentare al Paese le cose come stanno davvero, in modo che gli ultimi spiccioli di questa legislatura siano spesi per mettere giù i binari su cui far camminare la prossima in modo da ridurre il più possibile il rischio (alto, come dimostra la Sicilia) di deragliamento? Se sì, batta un colpo al più presto.
Motivo? In entrambi i casi nella campagna elettorale è stato bandito l’incombente fallimento e dunque non si parla del modo con cui evitarlo. Il tema, a Palermo come a Roma, è solo uno: come vincere le elezioni. O meglio, come impedire che siano gli altri a prevalere: “uniamoci contro la sinistra”, “sbarriamo la strada al ritorno di Berlusconi e dei berlusconidi”, sono i soli argomenti usati. Senza dire, ma soprattutto senza sapere, come diavolo si userà l’eventuale vittoria. La quale, inevitabilmente, non arriva. Perché gli italiani, che abitino in Sicilia o nel profondo Nord, si sono rotti di sentirsi raccontare la storiella del lupo cattivo, del nemico da abbattere, mentre le loro condizioni di vita – anche solo sotto il profilo psicologico – peggiorano a vista d’occhio. E o non vanno più ai seggi, oppure ci vanno per votare la lista più anti-sistema che ci sia: sommando il 52,58% di astenuti con il 18,2% di suffragi andati al candidato di Grillo (calcolati sul 100% degli aventi diritto al voto fa 8,63%) si arriva al 61,21% dei siciliani che hanno voluto lasciare all’insieme di tutti gli altri partiti (compresi quelli che non hanno superato lo sbarramento) soltanto il 38,79 dei suffragi. Così Rosario Crocetta che è risultato primo, non solo ha 40 seggi su 90 e quindi non ha vinto un fico secco, ma conta solo sul consenso del 14,4% dei siciliani con diritto di voto. E il Pd che con il suo 13,4% canta vittoria – dimenticando che comunque il primo partito è il movimento 5 stelle – in realtà è votato solo da un siciliano su sedici. Peggio ancora il Pdl.
Ora, nella Regione che spende 1,7 miliardi l’anno per pagare dieci volte di più che nelle altre regioni i propri dipendenti, l’alternativa è secca: o si portano i libri in tribunale, e di conseguenza si va al commissariamento, o si preferisce evitarlo, tirando a campare come è stato fin qui, e allora non è difficile pronosticare che il governo regionale, potendosi creare solo con alleanze che in campagna elettorale erano tassativamente escluse, finirà col passare da due o tre crisi prima che il presidente si dimetta, tornando ad elezioni anticipate. E se non vorrà farlo la Sicilia diverrà una polveriera sociale pronta ad esplodere.
A Roma si rischia di fare come a Palermo. Andiamo a votare, non importa se a febbraio o ad aprile, ma sappiamo già che dalle urne – disertate da un italiano su due – uscirà un falso vincitore, che avrà la maggioranza alla Camera ma non al Senato (cioè non potrà formare un governo) se resta l’attuale legge elettorale, e neppure quella se la modalità di conteggio dei voti dovesse cambiare (nel caso, sempre più remoto, non potrà che essere in senso meno maggioritario). Nel frattempo il governo Monti dovrà decidere se lasciare a chi verrà dopo (presumibilmente esso stesso) la decisione se lanciare l’help alla Bce o se farlo prima, condizionando in modo vincolante chi dovesse per caso vincere davvero la contesa elettorale. Con la buona probabilità che qualche istituzione alzi la mano e contesti le imposizioni di cui l’eventuale prestito di Francoforte sarebbe corredato. Avete visto la Corte dei Conti greca che ieri ha bocciato (per incostituzionalità) la riforma delle pensioni varata dal governo sotto dettatura della “troika”? Ecco, una cosa del genere.
In questa situazione, così come sarebbe stato necessario che in Sicilia le forze dotate di senso di responsabilità (avendocene) dicessero che bisognava decidere prima del voto se dichiarare bancarotta e come gestirla (è successo anche in California, non è mica crollato il mondo!), allo stesso modo ora sarebbe opportuno che il dibattito politico nazionale uscisse dai recinti (sempre più angusti) dei partiti e delle loro primarie (per fare che?) e prendesse il toro per le corna. Se lo spread continua a muoversi a quota 350 e può solo salire (l’effetto Draghi è ormai pienamente assorbito), se le nostre banche non hanno del tutto superato la fase acuta delle loro difficoltà, cosa conviene fare, aspettare che le cose peggiorino o bussare alla porta della Bce oggi che i fumi di un’inutile (peggio, dannosa) campagna elettorale non sono ancora così evidenti?
Caro presidente Monti, lei che (finora) si è chiamato fuori dalle elezioni e dal “dopo” – a mio avviso sbagliando, ma questo tema sarò oggetto di una prossima riflessione – non pensa che sarebbe opportuno rappresentare al Paese le cose come stanno davvero, in modo che gli ultimi spiccioli di questa legislatura siano spesi per mettere giù i binari su cui far camminare la prossima in modo da ridurre il più possibile il rischio (alto, come dimostra la Sicilia) di deragliamento? Se sì, batta un colpo al più presto.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.