Exporting democray alla maniera ottomana
Erdogan: il gran visir dell’era globale
Ankara mostra i muscolidi Antonio Picasso - 16 settembre 2011
Lo chiamano “il gran visir Erdogan”. E come tale il primo ministro turco è stato trattato. Sia in Egitto, sia in Tunisia, dove è arrivato appena ieri pomeriggio. Le ali di folla che hanno incorniciato la strada percorsa dal premier anatomico dall’aeroporto al centro di Tunisi fanno pensare che anche la prossima tappa in Libia sarà altrettanto positiva.
Erdogan si conferma il solo leader non arabo che abbia ricevuto un’accoglienza davvero popolare nei Paesi attraversati dal vento di primavera. Era dai tempi di Mustafa Kemal che Ankara non si sentiva così al centro dell’attenzione regionale. Del resto, la Turchia è riuscita sapientemente a cavalcare l’opportunità della rivolta dei gelsomini e assumere il ruolo di mediatore fra le spinte riformiste e di trasformazione, da una parte, e gli interessi economici mondiali che ruotano interno al Medioriente.
Il timore che la rivolta araba possa recidere le relazioni con le grandi multinazionali occidentali é ancora acceso. Tuttavia, Ankara sta cercando di passare come garante del periodo di transizione. Vuole assicurare Europa e Stati Uniti che il Medioriente prossimo venturo resterà quella terra di risorse economiche e di investimento quale è stata finora. Erdogan, proprio con questa visita, desidera assicurarsi di persona che queste previsioni siano fondate.
Fra i tre Paesi toccati dal viaggio, la Tunisia è quella che riscuote minore interesse. Sia in termini economici, sia da un punto di vista politico. Tuttavia, è proprio dalle sue coste che si è esteso il cambiamento, così come vi resta oggi la tensione. È qui, come in Egitto, che ristagnano le incognite sulla futura classe dirigente. E quel che più assillante è dalle sue spiagge, un tempo unicamente meta di turismo, che partono i convogli della speranza di migliaia di profughi scampati alla guerra in Libia e alla fame in tutto il resto del Nord Africa.
La tattica di Erdogan è semplice: presentarsi in Egitto, Tunisia e Liba con l’obiettivo primario di ristabilire i rapporti commerciali bilaterali. E, successivamente, guadagnarsi una posizione privilegiata presso il corpo diplomatico di ciascuno dei rispettivi governi. «Gli ultimi sviluppi politici hanno ridotto l’attività economica della Regione, ma presto riprenderà, anche con maggiore vigore» ha riferito Erdal Bahçývan, il presidente della Camera di Commercio di Istanbul. La dichiarazione suggerisce il realismo che anima i comparti produttivi turchi. Prima è necessario riaccendere i motori economici. Perché è portando ricchezza che poi si può aprire un dialogo diplomatico. Non a caso, al seguito di Erdogan c’é uno stuolo di 280 imprenditori suoi connazionali.
Il gruppo ha lasciato ieri Il Cairo con la promessa che, nel più breve tempo possibile, l’interscambio commerciale egitto-turco salirà dagli attuali 3 miliardi di dollari a 5 miliardi. Un trend di crescita che Ankara auspica di realizzare anche in Tunisia e in Libia. È sorprendente come la Turchia sia animata da un ottimismo che nessuno in Occidente al momento nutre nei confronti dei Paesi in questione.
Erdogan poggia queste tattiche di accortezza sul desiderio di affermarsi come leader sì regionale, ma secondo gli schemi di una strategia multitasking. Perché la Turchia è un membro della Nato. Il che significa presentarsi in sede internazionale come governo filo-occidentale, pur restando un interlocutore autonomo e privilegiato della Russia e di tutti i Paesi che si affacciano sul Mar Nero. Ma è anche il quarto Paese, per estensione e popolazione, che si affaccia sul Mediterraneo. Ed è inoltre una nazione a maggioranza islamica. Il tutto senza trascurare il fatto di avere ormai un piede dentro l’Unione europea.
Ankara mostra i muscoli quindi. Lo fa nei confronti degli alleati occidentali. Sapendo che Washington non potrebbe riscuotere la stessa stima in seno alla popolazione egiziana o tunisina. E con l’idea maliziosa per cui, in un momento di così profonda crisi dell’Ue, sia proprio il suo giovane dinamismo a rappresentare l’ancora di salvezza per un euro economicamente esausto e un mondo unitario a Bruxelles privo di ispirazione.
Il disegno politico di Erdogan, infine, trova ossigeno anche in quella persistente crisi aperta con Israele. La Turchia vuole dimostrare agli alleati di Netanyahu che il processo di pace si può riprendere solo a condizione che venga ridimensionata la prospettiva a senso unico che Usa e Ue hanno sempre espresso in appoggio al governo israeliano.
L’impresa, nella sua interezza, non è facile. Erdogan però si sente galvanizzato proprio da quelle folle plaudenti che lo omaggiano nel mondo arabo. Lui, che arabo non è! Tuttavia, la sua forza sta nel sapersi mostrare con gli abiti di quella unica democrazia che il mondo arabo sa comprendere. Per la serie: exporting democracy, ma solo alla maniera ottomana.
Pubblicato da
http://worldonfocus.wordpress.com/
Erdogan si conferma il solo leader non arabo che abbia ricevuto un’accoglienza davvero popolare nei Paesi attraversati dal vento di primavera. Era dai tempi di Mustafa Kemal che Ankara non si sentiva così al centro dell’attenzione regionale. Del resto, la Turchia è riuscita sapientemente a cavalcare l’opportunità della rivolta dei gelsomini e assumere il ruolo di mediatore fra le spinte riformiste e di trasformazione, da una parte, e gli interessi economici mondiali che ruotano interno al Medioriente.
Il timore che la rivolta araba possa recidere le relazioni con le grandi multinazionali occidentali é ancora acceso. Tuttavia, Ankara sta cercando di passare come garante del periodo di transizione. Vuole assicurare Europa e Stati Uniti che il Medioriente prossimo venturo resterà quella terra di risorse economiche e di investimento quale è stata finora. Erdogan, proprio con questa visita, desidera assicurarsi di persona che queste previsioni siano fondate.
Fra i tre Paesi toccati dal viaggio, la Tunisia è quella che riscuote minore interesse. Sia in termini economici, sia da un punto di vista politico. Tuttavia, è proprio dalle sue coste che si è esteso il cambiamento, così come vi resta oggi la tensione. È qui, come in Egitto, che ristagnano le incognite sulla futura classe dirigente. E quel che più assillante è dalle sue spiagge, un tempo unicamente meta di turismo, che partono i convogli della speranza di migliaia di profughi scampati alla guerra in Libia e alla fame in tutto il resto del Nord Africa.
La tattica di Erdogan è semplice: presentarsi in Egitto, Tunisia e Liba con l’obiettivo primario di ristabilire i rapporti commerciali bilaterali. E, successivamente, guadagnarsi una posizione privilegiata presso il corpo diplomatico di ciascuno dei rispettivi governi. «Gli ultimi sviluppi politici hanno ridotto l’attività economica della Regione, ma presto riprenderà, anche con maggiore vigore» ha riferito Erdal Bahçývan, il presidente della Camera di Commercio di Istanbul. La dichiarazione suggerisce il realismo che anima i comparti produttivi turchi. Prima è necessario riaccendere i motori economici. Perché è portando ricchezza che poi si può aprire un dialogo diplomatico. Non a caso, al seguito di Erdogan c’é uno stuolo di 280 imprenditori suoi connazionali.
Il gruppo ha lasciato ieri Il Cairo con la promessa che, nel più breve tempo possibile, l’interscambio commerciale egitto-turco salirà dagli attuali 3 miliardi di dollari a 5 miliardi. Un trend di crescita che Ankara auspica di realizzare anche in Tunisia e in Libia. È sorprendente come la Turchia sia animata da un ottimismo che nessuno in Occidente al momento nutre nei confronti dei Paesi in questione.
Erdogan poggia queste tattiche di accortezza sul desiderio di affermarsi come leader sì regionale, ma secondo gli schemi di una strategia multitasking. Perché la Turchia è un membro della Nato. Il che significa presentarsi in sede internazionale come governo filo-occidentale, pur restando un interlocutore autonomo e privilegiato della Russia e di tutti i Paesi che si affacciano sul Mar Nero. Ma è anche il quarto Paese, per estensione e popolazione, che si affaccia sul Mediterraneo. Ed è inoltre una nazione a maggioranza islamica. Il tutto senza trascurare il fatto di avere ormai un piede dentro l’Unione europea.
Ankara mostra i muscoli quindi. Lo fa nei confronti degli alleati occidentali. Sapendo che Washington non potrebbe riscuotere la stessa stima in seno alla popolazione egiziana o tunisina. E con l’idea maliziosa per cui, in un momento di così profonda crisi dell’Ue, sia proprio il suo giovane dinamismo a rappresentare l’ancora di salvezza per un euro economicamente esausto e un mondo unitario a Bruxelles privo di ispirazione.
Il disegno politico di Erdogan, infine, trova ossigeno anche in quella persistente crisi aperta con Israele. La Turchia vuole dimostrare agli alleati di Netanyahu che il processo di pace si può riprendere solo a condizione che venga ridimensionata la prospettiva a senso unico che Usa e Ue hanno sempre espresso in appoggio al governo israeliano.
L’impresa, nella sua interezza, non è facile. Erdogan però si sente galvanizzato proprio da quelle folle plaudenti che lo omaggiano nel mondo arabo. Lui, che arabo non è! Tuttavia, la sua forza sta nel sapersi mostrare con gli abiti di quella unica democrazia che il mondo arabo sa comprendere. Per la serie: exporting democracy, ma solo alla maniera ottomana.
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L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.