Il Labour Party e le occasioni perdute
"Ed the Red"
Impariamo dall'esperienza britannica in tema di ricambio generazionaledi Pietro Salvatori - 07 ottobre 2010
Ed the Red. Ed il rosso ha vinto la corsa in famiglia per assumere il timone del partito laburista inglese. Una quarantina d’anni lui, poco più di 45 il fratello. Il dato anagrafico offre un primo spunto di riflessione. A contendersi la leadeship del maggiore partito d’opposizione britannico sono due quarantenni, gente che negli anni della Thatcher portava ancora le braghette corte. Stessa generazione di quel David Cameron che, dopo una lunga parentesi trascorsa all’ombra del blairismo, ha riportato i tories a calcare i tappeti dei palazzi che contano.
In Italia un settantenne presiede il Consiglio dei ministri. E non se la passano bene nemmeno dall’altra parte della barricata, dove si contendono (anche se con le fumose e bizantine regole di casa nostra) la leadership del partito di opposizione due come Bersani e Veltroni, che ormai viaggiano speditamente verso quota sessanta.
Ma il pregiudizio generazionale non è qualcosa che, preso tout-court, ci piace un granché. Le “quote giovani” rischiano da un lato di svilire le capacità di chi, magari con poca esperienza, ha un proprio preciso valore specifico. Dall’altra di fermare ai box sessantenni, o più, che, nel loro campo, si dimostrano ancora validi e capaci di tenere testa a qualsiasi tipo di concorrenza. Il dato evidenziato dalla Gran Bretagna va letto attraverso il filtro ragionato di una cultura politica peculiare.
A Londra i leader sono giovani per un motivo alquanto semplice: chi, guidando il proprio partito, perde la competizione elettorale, o ne viene delegittimato, passa la mano e si dedica ad altro. Successe così con Major, il cui tonfò aprì la strada a Blair, è successo recentemente per Gordon Brown, che ha pagato caro il timore di sondaggi sfavorevoli e non ha avuto il coraggio di indire le elezioni quando ancora poteva avere margini di vittoria. Lo stesso Blair, dopo aver dovuto cedere il passo al rivale di sempre Brown, oggi si dedica ad altro, tra incarichi istituzionali a livello europeo e alla remunerativa attività di conferenziere.
Se Ed e David Miliband hanno rappresentato volti relativamente nuovi nel bolso panorama politico europeo, non lo stesso si può dire delle piattaforme programmatiche che hanno costruito per dare la scalata al vertice del labour. L’immagine dello scontro tra la linea blairiana e quella di Gordon Brown è stato riprodotto con un notevole grado di approssimazione dai due fratelli. David è quello che più ha sostenuto la necessità di riscoprire gli elementi del new labour che hanno reso grande negli anni Novanta un partito precedentemente martoriato dalle sconfitte elettorali.
La valorizzazione dell’economia di mercato, l’attenzione alla middle-class, il rapporto preferenziale con gli Stati Uniti in politica estera. Una sinistra che guardi un passo più in là del proprio orticello, che faccia dell’inclusività la propria cifra di attrazione.
Al contrario Ed ha puntato sui sindacati, sulla caratterizzazione in senso socialdemocratico di un laburismo che deve piuttosto prestare attenzione alle politiche sociali, al mondo del lavoro. Un partito fortemente connotato a sinistra, insomma, che faccia di una precisa colorazione politica la bandiera sotto la quale riunire i delusi di Tony Blair.
Con la vittoria di Ed, il labour ha così perso un’occasione. Quella di risvegliarsi dai grigi anni di Brown, di rilanciare un messaggio che potesse essere appetibile per una larga maggioranza dell’elettorato. Lo stesso messaggio, in definitiva, che Cameron ha fatto proprio, declinandolo alla sua maniera, sottraendolo con intelligenza ai propri avversari.
Si è invece rinchiuso nel fortilizio identitario di Ed, non a caso definito “il rosso”, capace sì di compattare un elettorato che magari negli scorsi anni ha disertato le urne, ma sostanzialmente impossibilitato a sfondare oltre il proprio recinto settoriale. Lo stesso errore che corre il rischio di commettere Pier Luigi Bersani. Anche se, dopotutto, Veltroni non sembra essere un avversario degno di David.
In Italia un settantenne presiede il Consiglio dei ministri. E non se la passano bene nemmeno dall’altra parte della barricata, dove si contendono (anche se con le fumose e bizantine regole di casa nostra) la leadership del partito di opposizione due come Bersani e Veltroni, che ormai viaggiano speditamente verso quota sessanta.
Ma il pregiudizio generazionale non è qualcosa che, preso tout-court, ci piace un granché. Le “quote giovani” rischiano da un lato di svilire le capacità di chi, magari con poca esperienza, ha un proprio preciso valore specifico. Dall’altra di fermare ai box sessantenni, o più, che, nel loro campo, si dimostrano ancora validi e capaci di tenere testa a qualsiasi tipo di concorrenza. Il dato evidenziato dalla Gran Bretagna va letto attraverso il filtro ragionato di una cultura politica peculiare.
A Londra i leader sono giovani per un motivo alquanto semplice: chi, guidando il proprio partito, perde la competizione elettorale, o ne viene delegittimato, passa la mano e si dedica ad altro. Successe così con Major, il cui tonfò aprì la strada a Blair, è successo recentemente per Gordon Brown, che ha pagato caro il timore di sondaggi sfavorevoli e non ha avuto il coraggio di indire le elezioni quando ancora poteva avere margini di vittoria. Lo stesso Blair, dopo aver dovuto cedere il passo al rivale di sempre Brown, oggi si dedica ad altro, tra incarichi istituzionali a livello europeo e alla remunerativa attività di conferenziere.
Se Ed e David Miliband hanno rappresentato volti relativamente nuovi nel bolso panorama politico europeo, non lo stesso si può dire delle piattaforme programmatiche che hanno costruito per dare la scalata al vertice del labour. L’immagine dello scontro tra la linea blairiana e quella di Gordon Brown è stato riprodotto con un notevole grado di approssimazione dai due fratelli. David è quello che più ha sostenuto la necessità di riscoprire gli elementi del new labour che hanno reso grande negli anni Novanta un partito precedentemente martoriato dalle sconfitte elettorali.
La valorizzazione dell’economia di mercato, l’attenzione alla middle-class, il rapporto preferenziale con gli Stati Uniti in politica estera. Una sinistra che guardi un passo più in là del proprio orticello, che faccia dell’inclusività la propria cifra di attrazione.
Al contrario Ed ha puntato sui sindacati, sulla caratterizzazione in senso socialdemocratico di un laburismo che deve piuttosto prestare attenzione alle politiche sociali, al mondo del lavoro. Un partito fortemente connotato a sinistra, insomma, che faccia di una precisa colorazione politica la bandiera sotto la quale riunire i delusi di Tony Blair.
Con la vittoria di Ed, il labour ha così perso un’occasione. Quella di risvegliarsi dai grigi anni di Brown, di rilanciare un messaggio che potesse essere appetibile per una larga maggioranza dell’elettorato. Lo stesso messaggio, in definitiva, che Cameron ha fatto proprio, declinandolo alla sua maniera, sottraendolo con intelligenza ai propri avversari.
Si è invece rinchiuso nel fortilizio identitario di Ed, non a caso definito “il rosso”, capace sì di compattare un elettorato che magari negli scorsi anni ha disertato le urne, ma sostanzialmente impossibilitato a sfondare oltre il proprio recinto settoriale. Lo stesso errore che corre il rischio di commettere Pier Luigi Bersani. Anche se, dopotutto, Veltroni non sembra essere un avversario degno di David.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.