In scena l'opera dei pupi
Divorzio all'italiana
Il vero problema non è quello delle correnti e neanche della condotta governativadi Davide Giacalone - 28 luglio 2010
La politica mette in scena l’opera dei pupi, marionette che traducono i poemi cavallereschi in un susseguirsi concitato d’amori struggenti, minacce devastanti e gran clangore di spade. Ora l’uno ora l’altro finiscono infilzati o decapitati, per riprendere il proprio posto nella rappresentazione successiva. La politica d’oggi somiglia a questa recita perché non si ha il coraggio di riconoscere il vero problema, che non è quello delle correnti e neanche della condotta governativa.
Il fatto è che viviamo, da sedici anni, in un ibrido che non ha mai funzionato, né con la destra né con la sinistra. Un centauro al contrario: non come il mito greco, dell’animale con il corpo da cavallo, ma torso e testa d’uomo, possente e intelligente, ma il contrario, un bipede gracile con il testone nitrente. Gianfranco Fini non è il problema, ma il suo frutto (come lo furono altri). Il punto critico, dal quale nessuno può prescindere, si concentra nel fatto che il nostro sistema elettorale (come anche quello precedente, il mattarellum) non è coerente con il sistema costituzionale. Quindi: prima si vota e poi si procede a disfare quel che gli elettori hanno creato. Lanciare proclami contro le “correnti” non serve a niente, come dimostrano questi due quesiti: a. è lecito avere idee diverse, pur essendo all’interno di un medesimo partito? b. se si hanno idee diverse, è lecito lavorare perché si affermino? Le risposte sono, ovviamente, affermative.
In un sistema istituzionale e politico in cui il premier è davvero molto forte e potente, quello inglese, non solo nei partiti ci sono le correnti, ma il capo del governo (come è successo a Tony Blair e Margaret Thatcher) può essere messo in minoranza e cacciato dal proprio partito, senza attendere le elezioni. In quel sistema, però, la democrazia interna ai partiti s’intreccia con l’autonoma rappresentatività di ciascun parlamentare, eletto in un collegio uninominale e maggioritario. Da noi capita il contrario: nei partiti (tutti, non prendiamoci in giro, che ce ne sono anche con il nome del proprietario) c’è scarsissima democrazia e i parlamentari discendono dalla volontà dei capi.
Guardate le gran polemiche di questi giorni, il vociare dei pupi nel mentre fan cozzare le corazze: quasi nulla riguarda l’azione di governo. Litigano su tutto, insultandosi fino a darsi del delinquente e del mafioso: questione morale, P3, intercettazioni, diritto stesso al dissenso. Ma non sull’azione di governo, sulla quale, anzi, ci tengono a far sapere che l’esecutivo deve andare avanti. Il candore di una simile insensatezza tradisce la forza reale che crea il subbuglio: c’è un’Italia, vasta, che pretende rabbiosamente di non essere governata.
Da chiunque. Chiede di avere sostegni e difesa dei privilegi, ma non vuole essere governata. Ed è questa la forza che, di volta in volta, usa un galletto interno alla maggioranza per portare scompiglio nel pollaio.
Anche questo, però, non è né strano né, in sé, pericoloso. Succedente pure in altre democrazie. La nostra scricchiola perché la sua architettura istituzionale era consustanziale al sistema elettorale proporzionale e all’esistenza di partiti con le correnti. Non intendo dire che si deve tornare a quel sistema (non credo neanche sia possibile), semmai che si deve cambiare l’architettura. L’attuale sistema elettorale consegna ai capi dei partiti il potere di scegliersi i parlamentari. Che il criterio sia estetico, anagrafico, relativo alla disponibilità (umana e intellettuale), alla bella voce o all’umidità della lingua, cambia poco.
Anzi, non cambia niente. Quando i signori dell’Espresso raccontano la carriera delle farfalline berlusconiane esercitano il classico moralismo senza etica della faziosità senza idee, perché si può benissimo fare la medesima disamina sia dall’altra parte che con l’altro sesso. Ma questo sistema elettorale chiede ai capi dei partiti una sola cosa: visto che vi siete assegnati il premio di maggioranza, visto che i parlamentari non sono stati eletti da nessuno e una quota di loro siede in Parlamento solo perché il gruppo che li ha candidati raccoglie la maggioranza relativa dei voti, avete l’obbligo di arrivare alla fine della legislatura esattamente come ci siete entrati.
L’obbligo, perché con un sistema come questo va in cortocircuito il tragitto che la Costituzione segna per potere cambiare governo. Ecco, questa è l’unica cosa che si chiede, ed anche quella di cui non sono capaci. Né gli uni né gli altri.
In queste condizioni, se non si vuole scassare tutto, si deve avviare il cantiere della riforma costituzionale (quella vera, non quella propagandistica) e si deve o trovare una tregua o tornare alle urne. Ciò richiede una classe politica composta da gente dotata di responsabilità e non dedita al trasformismo più sfrenato. Da uomini, non da pupi. La porzione di forza di ciascuno, se non si vuole avvelenare la democrazia, non può che discendere dalla quota elettorale raccolta. Gira e rigira, questo è il punto dolente: ci sono apparati, istituzioni, gruppi e interessi che non hanno nessuna intenzione di riconoscere ai soli elettori il diritto di decidere, anzi, si sentono in dovere di correggerne gli indirizzi, che considerano plebei e infantili. Questo è il mare che tiene a galla i pupi.
Pubblicato da Libero
Il fatto è che viviamo, da sedici anni, in un ibrido che non ha mai funzionato, né con la destra né con la sinistra. Un centauro al contrario: non come il mito greco, dell’animale con il corpo da cavallo, ma torso e testa d’uomo, possente e intelligente, ma il contrario, un bipede gracile con il testone nitrente. Gianfranco Fini non è il problema, ma il suo frutto (come lo furono altri). Il punto critico, dal quale nessuno può prescindere, si concentra nel fatto che il nostro sistema elettorale (come anche quello precedente, il mattarellum) non è coerente con il sistema costituzionale. Quindi: prima si vota e poi si procede a disfare quel che gli elettori hanno creato. Lanciare proclami contro le “correnti” non serve a niente, come dimostrano questi due quesiti: a. è lecito avere idee diverse, pur essendo all’interno di un medesimo partito? b. se si hanno idee diverse, è lecito lavorare perché si affermino? Le risposte sono, ovviamente, affermative.
In un sistema istituzionale e politico in cui il premier è davvero molto forte e potente, quello inglese, non solo nei partiti ci sono le correnti, ma il capo del governo (come è successo a Tony Blair e Margaret Thatcher) può essere messo in minoranza e cacciato dal proprio partito, senza attendere le elezioni. In quel sistema, però, la democrazia interna ai partiti s’intreccia con l’autonoma rappresentatività di ciascun parlamentare, eletto in un collegio uninominale e maggioritario. Da noi capita il contrario: nei partiti (tutti, non prendiamoci in giro, che ce ne sono anche con il nome del proprietario) c’è scarsissima democrazia e i parlamentari discendono dalla volontà dei capi.
Guardate le gran polemiche di questi giorni, il vociare dei pupi nel mentre fan cozzare le corazze: quasi nulla riguarda l’azione di governo. Litigano su tutto, insultandosi fino a darsi del delinquente e del mafioso: questione morale, P3, intercettazioni, diritto stesso al dissenso. Ma non sull’azione di governo, sulla quale, anzi, ci tengono a far sapere che l’esecutivo deve andare avanti. Il candore di una simile insensatezza tradisce la forza reale che crea il subbuglio: c’è un’Italia, vasta, che pretende rabbiosamente di non essere governata.
Da chiunque. Chiede di avere sostegni e difesa dei privilegi, ma non vuole essere governata. Ed è questa la forza che, di volta in volta, usa un galletto interno alla maggioranza per portare scompiglio nel pollaio.
Anche questo, però, non è né strano né, in sé, pericoloso. Succedente pure in altre democrazie. La nostra scricchiola perché la sua architettura istituzionale era consustanziale al sistema elettorale proporzionale e all’esistenza di partiti con le correnti. Non intendo dire che si deve tornare a quel sistema (non credo neanche sia possibile), semmai che si deve cambiare l’architettura. L’attuale sistema elettorale consegna ai capi dei partiti il potere di scegliersi i parlamentari. Che il criterio sia estetico, anagrafico, relativo alla disponibilità (umana e intellettuale), alla bella voce o all’umidità della lingua, cambia poco.
Anzi, non cambia niente. Quando i signori dell’Espresso raccontano la carriera delle farfalline berlusconiane esercitano il classico moralismo senza etica della faziosità senza idee, perché si può benissimo fare la medesima disamina sia dall’altra parte che con l’altro sesso. Ma questo sistema elettorale chiede ai capi dei partiti una sola cosa: visto che vi siete assegnati il premio di maggioranza, visto che i parlamentari non sono stati eletti da nessuno e una quota di loro siede in Parlamento solo perché il gruppo che li ha candidati raccoglie la maggioranza relativa dei voti, avete l’obbligo di arrivare alla fine della legislatura esattamente come ci siete entrati.
L’obbligo, perché con un sistema come questo va in cortocircuito il tragitto che la Costituzione segna per potere cambiare governo. Ecco, questa è l’unica cosa che si chiede, ed anche quella di cui non sono capaci. Né gli uni né gli altri.
In queste condizioni, se non si vuole scassare tutto, si deve avviare il cantiere della riforma costituzionale (quella vera, non quella propagandistica) e si deve o trovare una tregua o tornare alle urne. Ciò richiede una classe politica composta da gente dotata di responsabilità e non dedita al trasformismo più sfrenato. Da uomini, non da pupi. La porzione di forza di ciascuno, se non si vuole avvelenare la democrazia, non può che discendere dalla quota elettorale raccolta. Gira e rigira, questo è il punto dolente: ci sono apparati, istituzioni, gruppi e interessi che non hanno nessuna intenzione di riconoscere ai soli elettori il diritto di decidere, anzi, si sentono in dovere di correggerne gli indirizzi, che considerano plebei e infantili. Questo è il mare che tiene a galla i pupi.
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L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.