La crisi crea lo spazio temporale per le riforme
Disoccupazione e silenzio della politica
È necessario agire. Basta con l’assistenzialismodi Davide Giacalone - 03 dicembre 2009
I nuovi dati sulla disoccupazione non sono dolorosi per quel che dicono, ma per quel che tacciono. Gli strilli giornalistici, suscitati da quei numeri, sono preoccupanti non per l’allarme che diffondono, ma per quello che omettono. Il silenzio della politica, infine, non lo si deve al riservato impegno riformista, ma alla convinzione che contino e rendano di più le polemiche sull’ultima sciocchezza detta da un qualche signore che s’immagina capo di qualche cosa. Quei dati, invece, meritano d’essere letti e meditati.
La disoccupazione italiana è arrivata all’8%, crescendo di un punto in un anno, ma fermandosi ben al di sotto delle drammatiche cifre spagnole (19,3) o francesi (10,1), così come resta al di sotto della media europea, sia che si consideri l’Unione a 27 Paesi (9,3%), o quella, a noi più omogenea, a 16 (9,8). Messa così, quindi, non c’è motivo di rallegrarsi, ma nemmeno di deprimersi. Questo, però, è solo un pezzo della realtà, perché ci sono altri dati da tenere in considerazione.
L’Italia ha un tasso d’inattività superiore alla media europea, vale a dire che gli italiani che hanno o cercano lavoro sono, percentualmente, un numero inferiore a quello medio europeo. Nell’anno che va dall’ottobre 2008 all’ottobre 2009, anno di crisi, i posti di lavoro persi sono stati 284 mila. Contemporaneamente, però, ben 209 mila italiani che prima cercavano lavoro hanno smesso di farlo. Si sono ritirati dalla corsa, o perché anziani o perché rassegnati, molto spesso perché donne (il tasso d’attività femminile è, da noi, molto basso). Se si sommassero i due numeri il quadro diventerebbe meno confortante. E non basta, perché in Italia funziona la cassa integrazione guadagni, che tutela più il posto di lavoro che non il lavoratore.
Questo ammortizzatore attutisce e rimanda la contabilizzazione dello scossone occupazionale. Anche qui, se noi sommassimo alla disoccupazione la maggiore inoccupazione e i cassintegrati a zero ore, eccoci entrati nella media europea, anzi, eccoci giunti oltre quella.
Non è tutto, perché se si guarda dentro la disoccupazione ufficiale troviamo il dato di gran lunga più sgradevole, ovvero che quasi il 27% dei giovani che cercano lavoro non lo trova. Troppo. Scandalosamente troppo. E’ vero che si tratta di un dato non nuovo, visto che l’Italia ha un costante eccesso di giovani che non lavorano, ma questa mi pare un’aggravante, non un’attenuante. Veniamo alle conseguenze politiche.
Chi pensasse d’affrontare il problema creando lavoro con spesa pubblica in deficit sarebbe matto, perché questo porterebbe solo a far crescere l’esercito dei mantenuti a spese di tutti, con conseguente crescita del debito che sulle spalle di tutti grava. Ma questo non significa l’inutilizzabilità della spesa pubblica, bensì la necessità di alimentarla non con il prelievo fiscale e di non dirigerla verso le spese correnti. In altre parole: si possono fare piani d’investimento finanziandoli con alienazioni, vendite di patrimonio pubblico, e indirizzandoli a creare sviluppo, non clientelismo. Che sono solo parole, lo so bene, ma sono quelle che stanno in un articolo. La ciccia è questa: se non troviamo il modo di moltiplicare lo sviluppo soffocheremo sotto al debito ed alla pressione fiscale che questo genera.
Al tempo stesso è necessario riformare sia il mercato del lavoro che gli ammortizzatori sociali, pensioni comprese, giacché il prolungarsi della crisi farà in modo che, per non vedere schizzare la disoccupazione si farà crescere la spesa improduttiva, ovvero quella destinata alla cassa integrazione e agli aiuti verso imprese non più produttive. Giulio Tremonti, opportunamente guardando al debito, s’è già rassegnato, annunciando che il deficit può crescere solo per quella roba.
E non è bello. Pertanto, alla fine, vedo una politica governativa che tende a guardare il lato rosa dei dati ed a sperare che la bufera si plachi, spendendo solo per acquistare i sacchi di sabbia che contengano l’alluvione, ed una politica d’opposizione che chiede sacchi più numerosi, non avendo alcun modello alternativo da proporre.
Manca un pezzo di politica, quello di chi crede, come noi, che la crisi sia lo spazio temporale delle riforme, che servano a meglio prendere i venti della ripresa. Roba che non costa, ma che si deve essere capaci di spiegare, per creare consenso e fiducia. L’incapacità di farlo è l’incapacità di costruire politica, ovvero quel che abbiamo davanti agli occhi.
Pubblicato da Libero
La disoccupazione italiana è arrivata all’8%, crescendo di un punto in un anno, ma fermandosi ben al di sotto delle drammatiche cifre spagnole (19,3) o francesi (10,1), così come resta al di sotto della media europea, sia che si consideri l’Unione a 27 Paesi (9,3%), o quella, a noi più omogenea, a 16 (9,8). Messa così, quindi, non c’è motivo di rallegrarsi, ma nemmeno di deprimersi. Questo, però, è solo un pezzo della realtà, perché ci sono altri dati da tenere in considerazione.
L’Italia ha un tasso d’inattività superiore alla media europea, vale a dire che gli italiani che hanno o cercano lavoro sono, percentualmente, un numero inferiore a quello medio europeo. Nell’anno che va dall’ottobre 2008 all’ottobre 2009, anno di crisi, i posti di lavoro persi sono stati 284 mila. Contemporaneamente, però, ben 209 mila italiani che prima cercavano lavoro hanno smesso di farlo. Si sono ritirati dalla corsa, o perché anziani o perché rassegnati, molto spesso perché donne (il tasso d’attività femminile è, da noi, molto basso). Se si sommassero i due numeri il quadro diventerebbe meno confortante. E non basta, perché in Italia funziona la cassa integrazione guadagni, che tutela più il posto di lavoro che non il lavoratore.
Questo ammortizzatore attutisce e rimanda la contabilizzazione dello scossone occupazionale. Anche qui, se noi sommassimo alla disoccupazione la maggiore inoccupazione e i cassintegrati a zero ore, eccoci entrati nella media europea, anzi, eccoci giunti oltre quella.
Non è tutto, perché se si guarda dentro la disoccupazione ufficiale troviamo il dato di gran lunga più sgradevole, ovvero che quasi il 27% dei giovani che cercano lavoro non lo trova. Troppo. Scandalosamente troppo. E’ vero che si tratta di un dato non nuovo, visto che l’Italia ha un costante eccesso di giovani che non lavorano, ma questa mi pare un’aggravante, non un’attenuante. Veniamo alle conseguenze politiche.
Chi pensasse d’affrontare il problema creando lavoro con spesa pubblica in deficit sarebbe matto, perché questo porterebbe solo a far crescere l’esercito dei mantenuti a spese di tutti, con conseguente crescita del debito che sulle spalle di tutti grava. Ma questo non significa l’inutilizzabilità della spesa pubblica, bensì la necessità di alimentarla non con il prelievo fiscale e di non dirigerla verso le spese correnti. In altre parole: si possono fare piani d’investimento finanziandoli con alienazioni, vendite di patrimonio pubblico, e indirizzandoli a creare sviluppo, non clientelismo. Che sono solo parole, lo so bene, ma sono quelle che stanno in un articolo. La ciccia è questa: se non troviamo il modo di moltiplicare lo sviluppo soffocheremo sotto al debito ed alla pressione fiscale che questo genera.
Al tempo stesso è necessario riformare sia il mercato del lavoro che gli ammortizzatori sociali, pensioni comprese, giacché il prolungarsi della crisi farà in modo che, per non vedere schizzare la disoccupazione si farà crescere la spesa improduttiva, ovvero quella destinata alla cassa integrazione e agli aiuti verso imprese non più produttive. Giulio Tremonti, opportunamente guardando al debito, s’è già rassegnato, annunciando che il deficit può crescere solo per quella roba.
E non è bello. Pertanto, alla fine, vedo una politica governativa che tende a guardare il lato rosa dei dati ed a sperare che la bufera si plachi, spendendo solo per acquistare i sacchi di sabbia che contengano l’alluvione, ed una politica d’opposizione che chiede sacchi più numerosi, non avendo alcun modello alternativo da proporre.
Manca un pezzo di politica, quello di chi crede, come noi, che la crisi sia lo spazio temporale delle riforme, che servano a meglio prendere i venti della ripresa. Roba che non costa, ma che si deve essere capaci di spiegare, per creare consenso e fiducia. L’incapacità di farlo è l’incapacità di costruire politica, ovvero quel che abbiamo davanti agli occhi.
Pubblicato da Libero
L'EDITORIALE
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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.