Il caso Wind-Jet e la bancarotta siciliana
Dilapidare e farsi votare
Un miracolo: una regione fallita salva un imprenditore fallito, a cura di amministratori falliti, che lasceranno tutto in mano ai loro discendenti direttidi Davide Giacalone - 02 ottobre 2012
Quando avvertimmo che in Windjet si sarebbero buttati soldi della regione siciliana, quindi del contribuente, fecero finta di non sentire. Quando chiedemmo che i candidati a governare la Sicilia prendessero posizione nessuno lo fece.
Eppure va a finire come prevedemmo: chi ha portato la Sicilia al fallimento provvede a salvare non un’azienda, ma un amico fallito. Carinerie fra colleghi. Con l’aggravante che mentre loro parlano di nove società, ipotetiche Aereo Linee Siciliane, l’Enac (che regola l’aviazione civile) smentisce che sia giunta anche solo la domanda per riprendere i voli. Non solo soldi buttati, ma anche nel nulla.
Il bocchettone da cui usciranno i quattrini pubblici è una finanziaria regionale, l’Irfis-FinSicilia. Fino alla fine del 2011 l’UniCredit ne possedeva il 76,26%, avendo come socia la regione. All’inizio di quest’anno si sono liberati del bidone, che è divenuto interamente pubblico e interamente nelle mani di amministratori regionali dimissionari.
Ma capacissimi di spendere, nominare, occupare e accaparrare. L’operazione non ha alcun senso economico, non risponde ad alcuna utilità collettiva, non difende il mercato (anzi lo umilia e offende), non favorisce né il turismo né i commerci.
La domanda è: com’è possibile che un simile sperpero sia comunque realizzabile? In fin dei conti ci guadagnano in pochi, né si salvano posti di lavoro che, presto, torneranno a essere in bilico. E allora? Allora manca una società civile che sappia non solo avere coscienza dell’interesse collettivo, ma anche solo difendere il proprio portafogli.
Manca perché in Sicilia tutto questo avviene alla luce del sole, non in una cosca mafiosa, ma è considerato ineluttabile, non modificabile. C’è una borghesia agiata che si crede smagata, in realtà è sterilizzata: non considera che il mondo possa essere diverso da quel che è, non crede a nessuno che si proponga di cambiarlo e guarda come patetici (qui non ha tutti i torti) i tentativi di farlo. In fondo, nel mentre il reddito medio disponibile delle famiglie siciliane cala i depositi bancari crescono.
Quella borghesia, di riffo o di raffo, vive alle spalle della spesa pubblica. E vive bene. Così anche una fetta rilevante dell’imprenditoria: ci sono aziende già fallite, da nessuno salvate, altre che boccheggiano, impoverite da una terra senza credito e con pagamenti eternamente rinviabili, specie se pubblici (quelli regionali sono fermi del tutto), ma c’è anche l’imprenditoria che punta a far accordi con i futuri vincitori, eredi di quello che Ivan Lo Bello (già capo della Confindustria siciliana) ha definito “il peggior governo della storia siciliana”.
E’ il governo ancora in carica, ma a me è sfuggito il comunicato in cui Confindustria prende posizione contro il salvataggio.
Ci sono tante famiglie ridotte alla povertà, che dovrebbero essere il terreno su cui far fiorire la rivolta. Ma si tratta di sottoploretariato culturale, allevato all’idea che il successo consista non nel lavorare, ma nel sistemarsi, non nel produrre, ma nel consumare, che per i propri figli sogna un posto in un format televisivo. Gente che ancora spera di avere qualche briciola cadente dalla torta che fu, quindi portata a proteggere i propri affamatori. E gli altri? Sono la maggioranza: i siciliani che si alzano la mattina e lavorano, che si guadagnano il pane, che pagano troppe tasse (sebbene non tutte), sono i più. Ma su di loro pesa la maledizione di Leonardo Sciascia: non hanno mai creduto che le idee possano cambiare il mondo.
A questi ho provato a proporre di rompere quel maleficio. E ho fallito. Ho presentato idee e soluzioni, per rimettere in modo una regione che non deve dipendere dai trasferimenti dal nord, che non deve prendersi per le chiappe, sostenendo di star mantenendo il nord, e che può correre, se solo si libera dai fantasmi del passato e dai ladri del presente. Il tessuto attorno s’è subito chiuso. Il mercato regionale dell’informazione ha provveduto a cancellare. Quello nazionale è interessato solo a nefandezze o inutili esaltazioni (possibilmente dei morti ammazzati). Per mia e nostra incapacità e dilettantismo abbiamo raccolto quasi mille firme, per presentare le liste, ma abbiamo cercato di farlo nel rispetto delle regole.
Risultato: chi le ha violate totalmente (ad esempio facendo firmare moduli in bianco, autenticati da pubblici ufficiali in falso ideologico) è considerato regolare, mentre chi le ha onorate, ma non è stato capace di rispettare le scadenze (per colpa nostra e perché la regola è nata per essere violata), è considerato irregolare.
Così si assiste al miracolo: una regione fallita salva un imprenditore fallito, a cura di amministratori falliti, che lasceranno tutto in mano ai loro discendenti diretti. Lezione dura, ma utile. Perché il mondo qual è non ha i soldi per durare, mentre chi ha idee e cuore deve sbrigarsi a imparare.
Eppure va a finire come prevedemmo: chi ha portato la Sicilia al fallimento provvede a salvare non un’azienda, ma un amico fallito. Carinerie fra colleghi. Con l’aggravante che mentre loro parlano di nove società, ipotetiche Aereo Linee Siciliane, l’Enac (che regola l’aviazione civile) smentisce che sia giunta anche solo la domanda per riprendere i voli. Non solo soldi buttati, ma anche nel nulla.
Il bocchettone da cui usciranno i quattrini pubblici è una finanziaria regionale, l’Irfis-FinSicilia. Fino alla fine del 2011 l’UniCredit ne possedeva il 76,26%, avendo come socia la regione. All’inizio di quest’anno si sono liberati del bidone, che è divenuto interamente pubblico e interamente nelle mani di amministratori regionali dimissionari.
Ma capacissimi di spendere, nominare, occupare e accaparrare. L’operazione non ha alcun senso economico, non risponde ad alcuna utilità collettiva, non difende il mercato (anzi lo umilia e offende), non favorisce né il turismo né i commerci.
La domanda è: com’è possibile che un simile sperpero sia comunque realizzabile? In fin dei conti ci guadagnano in pochi, né si salvano posti di lavoro che, presto, torneranno a essere in bilico. E allora? Allora manca una società civile che sappia non solo avere coscienza dell’interesse collettivo, ma anche solo difendere il proprio portafogli.
Manca perché in Sicilia tutto questo avviene alla luce del sole, non in una cosca mafiosa, ma è considerato ineluttabile, non modificabile. C’è una borghesia agiata che si crede smagata, in realtà è sterilizzata: non considera che il mondo possa essere diverso da quel che è, non crede a nessuno che si proponga di cambiarlo e guarda come patetici (qui non ha tutti i torti) i tentativi di farlo. In fondo, nel mentre il reddito medio disponibile delle famiglie siciliane cala i depositi bancari crescono.
Quella borghesia, di riffo o di raffo, vive alle spalle della spesa pubblica. E vive bene. Così anche una fetta rilevante dell’imprenditoria: ci sono aziende già fallite, da nessuno salvate, altre che boccheggiano, impoverite da una terra senza credito e con pagamenti eternamente rinviabili, specie se pubblici (quelli regionali sono fermi del tutto), ma c’è anche l’imprenditoria che punta a far accordi con i futuri vincitori, eredi di quello che Ivan Lo Bello (già capo della Confindustria siciliana) ha definito “il peggior governo della storia siciliana”.
E’ il governo ancora in carica, ma a me è sfuggito il comunicato in cui Confindustria prende posizione contro il salvataggio.
Ci sono tante famiglie ridotte alla povertà, che dovrebbero essere il terreno su cui far fiorire la rivolta. Ma si tratta di sottoploretariato culturale, allevato all’idea che il successo consista non nel lavorare, ma nel sistemarsi, non nel produrre, ma nel consumare, che per i propri figli sogna un posto in un format televisivo. Gente che ancora spera di avere qualche briciola cadente dalla torta che fu, quindi portata a proteggere i propri affamatori. E gli altri? Sono la maggioranza: i siciliani che si alzano la mattina e lavorano, che si guadagnano il pane, che pagano troppe tasse (sebbene non tutte), sono i più. Ma su di loro pesa la maledizione di Leonardo Sciascia: non hanno mai creduto che le idee possano cambiare il mondo.
A questi ho provato a proporre di rompere quel maleficio. E ho fallito. Ho presentato idee e soluzioni, per rimettere in modo una regione che non deve dipendere dai trasferimenti dal nord, che non deve prendersi per le chiappe, sostenendo di star mantenendo il nord, e che può correre, se solo si libera dai fantasmi del passato e dai ladri del presente. Il tessuto attorno s’è subito chiuso. Il mercato regionale dell’informazione ha provveduto a cancellare. Quello nazionale è interessato solo a nefandezze o inutili esaltazioni (possibilmente dei morti ammazzati). Per mia e nostra incapacità e dilettantismo abbiamo raccolto quasi mille firme, per presentare le liste, ma abbiamo cercato di farlo nel rispetto delle regole.
Risultato: chi le ha violate totalmente (ad esempio facendo firmare moduli in bianco, autenticati da pubblici ufficiali in falso ideologico) è considerato regolare, mentre chi le ha onorate, ma non è stato capace di rispettare le scadenze (per colpa nostra e perché la regola è nata per essere violata), è considerato irregolare.
Così si assiste al miracolo: una regione fallita salva un imprenditore fallito, a cura di amministratori falliti, che lasceranno tutto in mano ai loro discendenti diretti. Lezione dura, ma utile. Perché il mondo qual è non ha i soldi per durare, mentre chi ha idee e cuore deve sbrigarsi a imparare.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.