Recessione e crescita
Degli investimenti
La parola d'ordine in Italia e in Europa è una sola. Ma non si torni ad un sistema politico che ha fallitodi Enrico Cisnetto - 07 dicembre 2012
Bisogna cambiare strada, ma non così. Il tentativo di far saltare il governo Monti, operato sia sul piano politico (con lo strumentale attacco a Passera) che su quello parlamentare (con il blitz al Senato sulla fiducia al “decreto sviluppo”) da Berlusconi, è il modo peggiore per indurre un cambio di passo, pure assolutamente necessario, nella dinamica tra politiche di rigore e politiche per la crescita. Non è tanto lo spread tornato di colpo a 330 punti a spaventare, anche perché i mercati hanno loro logiche, basti vedere che pure quello spagnolo negli ultimi tempi si è mosso in sintonia con il nostro, e questo esclude una stretta correlazione con le vicende politiche interne quotidiane (sia quando il differenziale scende che quando sale). No, il vero problema è l’Europa. Per due motivi. Il primo è che il Pdl berlusconiano (ma ce n’è mai stato uno deberlusconizzato?) sembra adottare parole d’ordine – peraltro già sentite in bocca a Grillo – contro la moneta unica e l’eurosistema, contro la Germania e in assoluto contro il risanamento finanziario che non possono non preoccupare gli membri del club continentale e indurli a reazioni che altro non possono fare all’Italia se non del male. Il secondo motivo è che i cambiamenti “virtuosi” che invece è necessario introdurre nella politica economica italiana, e che sarebbe opportuno che Monti ascoltasse e facesse propri, in realtà debbono per forza essere gestiti in sede europea, sia perché un paese debole (e colpevole, per il non governo del passato) non può permettersi di attuarli senza il consenso dei partner (Germania in testa) e sia perché quegli stessi “cambiamenti virtuosi” dovrebbero essere adottati da tutti i paesi dell’eurogruppo, facendoli diventare una “nuova Maastricht”.
Ecco perché la sgangherata iniziativa del Cavaliere – a torto o a ragione l’ultimo cui i partner della moneta europea sono disposti ad ascoltare – rischia di essere un disastro e benemeriti saranno gli esponenti del Pdl che eviteranno di avallarla (come ieri hanno già fatto Frattini, Cazzola, Malgeri e Mantovano). Non tanto perché potrebbe mettere fine al governo Monti, visto che lo stesso esecutivo sembra essersi messo da tempo nella condizione di “aspettare” la fine della legislatura, con molti ministri che non esitano ad esprimere la speranza che finisca presto quella che definiscono un’agonia (in privato, ma fino ad un certo punto). Quanto perché così si rischia di bruciare l’opportunità che il calo degli spread e l’iniziativa salutare della Bce di Draghi (comprare tempo per darlo ai governi) hanno creato e che l’unanime valutazione di Fmi e Ocse hanno deciso di certificare autorevolmente: cambiare linea.
Non si tratta – in questa sede lo dico da fin dall’insediamento di Monti – di ridurre il tasso di rigore da mettere nell’opera di risanamento delle finanze pubbliche degli stati europei, bensì di usare altri mezzi rispetto a quelli fin qui scelti per metterlo in pratica. Politiche, cioè, compatibili, anzi integrabili, con quelle di sviluppo, che invece sono inesistenti a livello integrato e nei paesi a rischio e flebili anche da parte di coloro che più potrebbero permettersele (Germania, Olanda). Spesso si sente dire che di troppo rigore si può morire. Sbagliato, meglio dire: di rigore mal applicato e di non sviluppo si può morire. E in Italia come in tutta Europa, l’unico sistema per poter insieme risanare e sviluppare è mettere in gioco il patrimonio pubblico (chiedendo a quello privato di supportare le operazioni finanziarie che ne discendono) e convertire una parte di spesa pubblica corrente (privatizzando alcuni servizi pubblici) in spesa per investimenti.
E che la nuova parola d’ordine, in Italia e in Europa, debba essere “investire, investire, investire”, lo dicono gli indicatori di fiducia di famiglie e imprese, crollati ovunque a minimi storici e certificatori della epocalità della stagione che stiamo vivendo. La crisi non è per nulla finita. Sia perché la vita dell’euro è ancora appesa ad un filo, visto che nulla è stato fatto per creare l’unica condizione che può rianimare il sistema monetario continentale (l’integrazione politico-istituzionale che conduca agli Stati Uniti d’Europa), sia perché la recessione – con annessa disoccupazione e relative tensioni sociali – è ancora troppo forte per poter dire che l’economia reale è al riparo. Ma sia, soprattutto, perché è ormai evidente che la dimensione e la pervasività della crisi è tale per cui essa porta inevitabilmente a cambiamenti radicali (buoni se li si governa, cattivi se si perde la bussola, pessimi se ci si ostina a voler tornare “come prima”) e dunque vince chi ha il coraggio e la saggezza di lasciare il vecchio per il nuovo.
Già, ma come si fa a pensare di “investire, investire, investire” se l’Italia torna indietro, verso un sistema politico – quello bipolare della Seconda Repubblica – che è fallito clamorosamente e che tale appare agli occhi degli italiani (meno che a quei politici che, a destra come a sinistra, altro non sanno fare che riproporre il ring)? Che disastro!
Ecco perché la sgangherata iniziativa del Cavaliere – a torto o a ragione l’ultimo cui i partner della moneta europea sono disposti ad ascoltare – rischia di essere un disastro e benemeriti saranno gli esponenti del Pdl che eviteranno di avallarla (come ieri hanno già fatto Frattini, Cazzola, Malgeri e Mantovano). Non tanto perché potrebbe mettere fine al governo Monti, visto che lo stesso esecutivo sembra essersi messo da tempo nella condizione di “aspettare” la fine della legislatura, con molti ministri che non esitano ad esprimere la speranza che finisca presto quella che definiscono un’agonia (in privato, ma fino ad un certo punto). Quanto perché così si rischia di bruciare l’opportunità che il calo degli spread e l’iniziativa salutare della Bce di Draghi (comprare tempo per darlo ai governi) hanno creato e che l’unanime valutazione di Fmi e Ocse hanno deciso di certificare autorevolmente: cambiare linea.
Non si tratta – in questa sede lo dico da fin dall’insediamento di Monti – di ridurre il tasso di rigore da mettere nell’opera di risanamento delle finanze pubbliche degli stati europei, bensì di usare altri mezzi rispetto a quelli fin qui scelti per metterlo in pratica. Politiche, cioè, compatibili, anzi integrabili, con quelle di sviluppo, che invece sono inesistenti a livello integrato e nei paesi a rischio e flebili anche da parte di coloro che più potrebbero permettersele (Germania, Olanda). Spesso si sente dire che di troppo rigore si può morire. Sbagliato, meglio dire: di rigore mal applicato e di non sviluppo si può morire. E in Italia come in tutta Europa, l’unico sistema per poter insieme risanare e sviluppare è mettere in gioco il patrimonio pubblico (chiedendo a quello privato di supportare le operazioni finanziarie che ne discendono) e convertire una parte di spesa pubblica corrente (privatizzando alcuni servizi pubblici) in spesa per investimenti.
E che la nuova parola d’ordine, in Italia e in Europa, debba essere “investire, investire, investire”, lo dicono gli indicatori di fiducia di famiglie e imprese, crollati ovunque a minimi storici e certificatori della epocalità della stagione che stiamo vivendo. La crisi non è per nulla finita. Sia perché la vita dell’euro è ancora appesa ad un filo, visto che nulla è stato fatto per creare l’unica condizione che può rianimare il sistema monetario continentale (l’integrazione politico-istituzionale che conduca agli Stati Uniti d’Europa), sia perché la recessione – con annessa disoccupazione e relative tensioni sociali – è ancora troppo forte per poter dire che l’economia reale è al riparo. Ma sia, soprattutto, perché è ormai evidente che la dimensione e la pervasività della crisi è tale per cui essa porta inevitabilmente a cambiamenti radicali (buoni se li si governa, cattivi se si perde la bussola, pessimi se ci si ostina a voler tornare “come prima”) e dunque vince chi ha il coraggio e la saggezza di lasciare il vecchio per il nuovo.
Già, ma come si fa a pensare di “investire, investire, investire” se l’Italia torna indietro, verso un sistema politico – quello bipolare della Seconda Repubblica – che è fallito clamorosamente e che tale appare agli occhi degli italiani (meno che a quei politici che, a destra come a sinistra, altro non sanno fare che riproporre il ring)? Che disastro!
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.