Sistema produttivo poco integrato con l’estero
Dal commercio all’integrazione
Il made in Italy paga la timidezza imprenditoriale e la latitanza della politicadi Paolo Bozzacchi - 28 ottobre 2005
Parola magica: internazionalizzazione. D’accordo, ma come? La sfida della globalizzazione costringe le imprese del nostro paese a crescere, ma non ha nessuna chance di essere vinta se non si migliorerà l’integrazione del sistema produttivo italiano a livello internazionale.
Il made in Italy ha raccolto i ripetuti inviti di Luca Corsero di Montezemolo e capito che deve conquistare i mercati globali per sopravvivere, ma spesso dalla politica e dagli imprenditori stessi vengono ancora commessi errori strategici che penalizzano l’intero sistema.
Il messaggio che è arrivato alle numerosissime piccole e medie imprese è che molti problemi congiunturali possano essere risolti delocalizzando. E qui sta il primo grosso limite, essenzialmente culturale: oggi per competere non basta più spostare la produzione in modo che aumentino i profitti e diminuiscano gli alti costi del lavoro. Occorre guardare più avanti, e cercare necessariamente di andare a produrre in quei mercati che possono rappresentare uno sbocco importante per i prodotti italiani.
Il secondo limite riguarda anche i grandi gruppi, i cosiddetti campioni nazionali, ed è legato alla mentalità aziendale italiana, spesso troppo accorta. Lo dimostra la tipologia prevalentemente “brownfield” degli investimenti diretti esteri (Ide) italiani. In parole povere gli imprenditori non hanno abbastanza coraggio per partire da zero da soli e andare all’estero (investimenti “greenfield”); preferiscono creare delle partnership, rilevare delle quote fuori confine, e operare in modo meno rischioso.
Senza contare la latitanza della politica, che non guarda più in là del naso e non incentiva a dovere la realizzazione all’estero di investimenti produttivi, in grado di creare, soprattutto, dei veri e propri presidi su quote di mercato locali.
Il modello di export italiano sarebbe quindi completamente da rovesciare. Finora ha previsto l’esportazione di macchinari ai paesi emergenti, che li utilizzano per realizzare prodotti da distribuire nei paesi avanzati. Un vero e proprio gatto che si morde la coda. Occorre seguire, invece, esempi virtuosi, come quello della Perfetti Van Melle, azienda dolciaria. Andando a produrre in India, non solo ha modificato il gusto delle proprie caramelle per il palato degli indiani, ma ha anche deciso di vendere i propri dolci sfusi, e non in pacchetto, per venire incontro alle povere tasche locali. Risultato? Dopo un’iniziale sofferenza ha ottenuto in pochi anni ben il 30% del mercato locale, demograficamente il più promettente al mondo.
Internazionalizzazione, quindi, non è una brutta parola. E nemmeno uno stabilimento in Cina.
Il made in Italy ha raccolto i ripetuti inviti di Luca Corsero di Montezemolo e capito che deve conquistare i mercati globali per sopravvivere, ma spesso dalla politica e dagli imprenditori stessi vengono ancora commessi errori strategici che penalizzano l’intero sistema.
Il messaggio che è arrivato alle numerosissime piccole e medie imprese è che molti problemi congiunturali possano essere risolti delocalizzando. E qui sta il primo grosso limite, essenzialmente culturale: oggi per competere non basta più spostare la produzione in modo che aumentino i profitti e diminuiscano gli alti costi del lavoro. Occorre guardare più avanti, e cercare necessariamente di andare a produrre in quei mercati che possono rappresentare uno sbocco importante per i prodotti italiani.
Il secondo limite riguarda anche i grandi gruppi, i cosiddetti campioni nazionali, ed è legato alla mentalità aziendale italiana, spesso troppo accorta. Lo dimostra la tipologia prevalentemente “brownfield” degli investimenti diretti esteri (Ide) italiani. In parole povere gli imprenditori non hanno abbastanza coraggio per partire da zero da soli e andare all’estero (investimenti “greenfield”); preferiscono creare delle partnership, rilevare delle quote fuori confine, e operare in modo meno rischioso.
Senza contare la latitanza della politica, che non guarda più in là del naso e non incentiva a dovere la realizzazione all’estero di investimenti produttivi, in grado di creare, soprattutto, dei veri e propri presidi su quote di mercato locali.
Il modello di export italiano sarebbe quindi completamente da rovesciare. Finora ha previsto l’esportazione di macchinari ai paesi emergenti, che li utilizzano per realizzare prodotti da distribuire nei paesi avanzati. Un vero e proprio gatto che si morde la coda. Occorre seguire, invece, esempi virtuosi, come quello della Perfetti Van Melle, azienda dolciaria. Andando a produrre in India, non solo ha modificato il gusto delle proprie caramelle per il palato degli indiani, ma ha anche deciso di vendere i propri dolci sfusi, e non in pacchetto, per venire incontro alle povere tasche locali. Risultato? Dopo un’iniziale sofferenza ha ottenuto in pochi anni ben il 30% del mercato locale, demograficamente il più promettente al mondo.
Internazionalizzazione, quindi, non è una brutta parola. E nemmeno uno stabilimento in Cina.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.