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Il calo dello spread

C'è poco da festeggiare

Illusione e sciocchezze sul calo dello spread, mentre l'emergenza non è ancora finita

di Enrico Cisnetto - 19 agosto 2013

Si osservano due opposte reazioni alla notizia che lo spread tra i Btp e i Bund tedeschi è sceso a 230 punti base, con il tasso del poliennale italiano al 4,18%, ai minimi da oltre due anni. La prima è di irrazionale euforia – del tipo “bene, così abbiamo il tesoretto che ci serve per abolire l’Imu e/o per non aumentare l’Iva” – senza tenere in minimo conto che proprio in questi giorni Bankitalia ci ha comunicato che il debito pubblico continua a crescere, e ha raggiunto a giugno il nuovo record di 2.075 miliardi. In sei mesi l’incremento del debito è stato di 86,5 miliardi, cifra che riflette il fabbisogno delle Amministrazioni pubbliche (44,5 miliardi) e l’aumento delle disponibilità liquide del Tesoro (41,9 miliardi, arrivando ad un totale di 76,3 miliardi). Percentualmente la crescita è stata del 4,34%, il che fa presumere che la nostra esposizione in valore assoluto cresca all’incirca dell’8,5% all’anno. In relazione al pil (che nel 2013 decrescerà di un ulteriore 2%), siamo in marcia verso quota 140%. Dunque, il debito costa meno perché i tassi scendono (anche se non nella stessa misura dello spread), ma cresce di volume: niente di cui stare allegri. Tanto più che nello stesso periodo l’aumento della pressione fiscale ha fatto crescere le entrate tributarie del 5,1%, senza che un centesimo di spesa corrente sia stato tagliato.

La seconda reazione è invece sciocca: ecco la dimostrazione (si dice dalle parti del Pdl) che lo spread è tutta una bugia, messa in scena da chi nel 2011 voleva far cadere il governo Berlusconi e costringerci a fare scelte contro i nostri interessi. Capirei se si dicesse che la riduzione del differenziale non è merito né di Monti né di Letta. Infatti, è merito esclusivo di Draghi e delle scelte che è riuscito ad imporre in seno alla Bce. Ma pensare che si tratti di una gigantesca fregatura ai nostri danni vuol dire non aver capito nulla: in problema non è mai stato l’Italia, o la Spagna e la Grecia, ma l’euro e le sue tare genetiche, che dopo la crescita dei debiti pubblici europei a seguito della grande crisi finanziaria mondiale sono emerse in tutta la loro virulenta evidenza e su cui la speculazione è andata (inevitabilmente) a nozze. Ovvio che i primi farne le spese siano stati i paesi più fragili, e l’Italia fra questi.

Draghi, frapponendosi tra la speculazione e il finanziamento dei debiti pubblici, ha arginato il problema, comprando tempo e offrendolo ai governi perché mettessero rimedio sia ai limiti strutturali dell’eurosistema sia alle questioni di fondo di ciascuna economia. Non era affatto scontato che Draghi ci riuscisse – basti pensare ai contrasti, spesso sotterranei ma durissimi, con la Bundesbank – e ora che i mercati si sono convinti che questa partita l’abbia vinta lui, gliene danno atto riducendo la pressione speculativa e dunque facendo rientrare gli spread (non solo quello italiano, anche gli altri, tanto che Italia e Spagna sono separate solo da una decina di punti).

Tutto risolto, quindi? Niente affatto. Perché il tempo che la Bce ha comprato non è eterno, e se nulla avverrà sui due piani che ho indicato, gli spread torneranno a salire. A cominciare da quello Btp-Bund, se il governo italiano continuerà nella politica dei piccoli passi (l’ultima manovra strutturale è l’intervento di Monti sulle pensioni, 20 mesi fa) o se, peggio, lascerà per mandare gli italiani a elezioni della serie “salto nel buio”.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.