L'allarme della Bce
Contro l'austerity bisogna "lasciar fare"
Dismissioni pubbliche, sburocratizzazione, voce grossa in Europa e riforma della giustizia. Ecco da dove ripartire.di Davide Giacalone - 14 giugno 2013
Muoviamoci subito o asfissieremo in fretta. L’allarme della Banca centrale europea, la forza con cui ribadisce che il quadro macroeconomico negativo non consente all’Italia di diluire nessuno degli impegni presi, quindi la necessità di tenere il deficit sotto il 3% continuando a ridurre il debito e a spendere l’avanzo primario nella sua remunerazione, serve al governo per avere una sponda solida. Nessuno chieda di non aumentare l’Iva, fra quindici giorni, essendo già un miracolo se non si metteranno altre tasse. Ma è una condizione folle, a fronte della quale il presidente del Consiglio e i suoi ministri continuano a partecipare a innumerevoli convegni, senza avere un bel nulla da dire. Arano il consenso delle corporazioni, non evitano di prendersi i loro fischi, ma lasciano abbandonato quello della crescita. Stiano zitti, per carità di Patria, e rimettano mano al lavoro serio.
Ecco le cose da farsi, ciascuna delle quali non richiede che si mettano attorno a un tavolo 42 presunti saggi che si vedono una volta alla settimana (significa che parlano dieci minuti a testa e finiscono la giornata, poi arrivederci alla prossima), ma tre o quattro che sappiano di che parlano, che lavorino tutti i giorni e finiscano in dieci.
1. Nei tempi brevi non ci schiodiamo dal peso del debito pubblico. Abbiamo detto e ridetto che il semplice rapporto debito pubblico/pil non solo non descrive la solidità di un Paese, ma aumenta in ragione delle politiche fiscali che dovrebbero ridurlo. Amen, nell’immediato serve una via d’uscita, che consiste nel mettere immediatamente (decreto legge) in funzione un meccanismo e un fondo per le dismissioni pubbliche, mobiliari e immobiliari. Il 10% del patrimonio più facilmente liquidabile equivale, più o meno, a 3 punti di pil (45-50 miliardi). Buttando sul mercato sia la capacità di decidere e realizzare, che la disponibilità finanziaria che ne deriva, si ottiene un moltiplicatore che fa crescere la nuova ricchezza prodotta di almeno un 50% in più. Il che non solo ci strappa all’asfissia della recessione, ma genera gettito fiscale.
2. Quei soldi non devono andare in spesa corrente, perché è esattamente in quel modo che ci siamo rovinati. Lo scambio deve essere: meno patrimonio in cambio di meno pressione fiscale e più investimenti infrastrutturali. Detto rozzamente: metà per meno tasse e metà per trasporti, digitalizzazione, riedificazione. A questo si aggiunga una portentosa deregolamentazione burocratica (favorita dalla digitalizzazione) e l’Italia del fare si ritrova un sano Stato del lasciar fare. E’ quella la nostra ricchezza.
3. Sul fronte europeo non si tratta di mandare in giro governanti con il cappello in mano, ma con il fucile a tracolla. Sono convinto che uscire dall’euro sarebbe un danno e l’alimentazione di un’illusione, ma proprio per questo credo che il prof. Paolo Savona abbia ragione: un Paese serio deve disporre di un piano B. Della serie: noi non molliamo, ma neanche ci facciamo ammollare, quindi ci prepariamo a uscire. Non ci stiamo a soffocare nel mentre siamo contributori netti dell’Unione europea (diamo più soldi di quanti ne prendiamo) e non riconosciamo ai tedeschi il diritto di farci concorrenza sleale, con aziende che accedono al credito grazie a sostanziali aiuti di Stato (con banche pericolanti e dai bilanci equivoci). Se l’Europa diventa anti-europeista noi europeisti imbocchiamo la porta. Quando la crisi dei debiti sovrani cominciò la Bundesbank fece girare la notizia di avere un piano per portare fuori la Germania. E’ ora di presentare il nostro. Prima ci sarà e meno sarà necessario usarlo.
4. Abbiamo una giustizia che fa schifo, ma non siamo capaci di cambiarla (che pena, e sì che sarebbe facile). Creiamo una sede arbitrale specializzata per gli investitori esteri nel capitale di rischio, fornendo al mondo un testo unico dei diritti e dei doveri dell’impresa, in Italia. Già con questo i solchi essiccati torneranno a vedere scorrere liquidità, rigermoglieranno le aziende capaci e si creerà gettito fiscale.
Bastano queste cose. Ne servirebbero molte altre, ma bastano queste e l’Italia fa un balzo in avanti. Ci saranno scompensi, qualcuno soffrirà, le fasce che campano di trasferimenti pubblici (anche imprese) sentiranno dolore, ma il guizzo vitale porterà tutti, anche questi, fuori dalla pozza nella quale siamo finiti. Questo è il lavoro da farsi, senza star lì a menarla sul solo punto di Iva, che nel migliore dei casi restiamo dove siamo, e nel peggiore aumenteremo l’aliquota vedendo scendere il gettito. Serve molto di più.
Avverto chi governa che non gliene frega niente a nessuno delle larghe o delle strette intese, che tutti loro sono accompagnati da un collettivo giudizio di sfiducia, che andare in giro a non dire un accidente nuoce alla loro già precaria salute e che pensare di aspettare settembre è una pessima idea. Silenzio e lavoro. Fateci vedere che ancora capite in che situazione siamo.
Ecco le cose da farsi, ciascuna delle quali non richiede che si mettano attorno a un tavolo 42 presunti saggi che si vedono una volta alla settimana (significa che parlano dieci minuti a testa e finiscono la giornata, poi arrivederci alla prossima), ma tre o quattro che sappiano di che parlano, che lavorino tutti i giorni e finiscano in dieci.
1. Nei tempi brevi non ci schiodiamo dal peso del debito pubblico. Abbiamo detto e ridetto che il semplice rapporto debito pubblico/pil non solo non descrive la solidità di un Paese, ma aumenta in ragione delle politiche fiscali che dovrebbero ridurlo. Amen, nell’immediato serve una via d’uscita, che consiste nel mettere immediatamente (decreto legge) in funzione un meccanismo e un fondo per le dismissioni pubbliche, mobiliari e immobiliari. Il 10% del patrimonio più facilmente liquidabile equivale, più o meno, a 3 punti di pil (45-50 miliardi). Buttando sul mercato sia la capacità di decidere e realizzare, che la disponibilità finanziaria che ne deriva, si ottiene un moltiplicatore che fa crescere la nuova ricchezza prodotta di almeno un 50% in più. Il che non solo ci strappa all’asfissia della recessione, ma genera gettito fiscale.
2. Quei soldi non devono andare in spesa corrente, perché è esattamente in quel modo che ci siamo rovinati. Lo scambio deve essere: meno patrimonio in cambio di meno pressione fiscale e più investimenti infrastrutturali. Detto rozzamente: metà per meno tasse e metà per trasporti, digitalizzazione, riedificazione. A questo si aggiunga una portentosa deregolamentazione burocratica (favorita dalla digitalizzazione) e l’Italia del fare si ritrova un sano Stato del lasciar fare. E’ quella la nostra ricchezza.
3. Sul fronte europeo non si tratta di mandare in giro governanti con il cappello in mano, ma con il fucile a tracolla. Sono convinto che uscire dall’euro sarebbe un danno e l’alimentazione di un’illusione, ma proprio per questo credo che il prof. Paolo Savona abbia ragione: un Paese serio deve disporre di un piano B. Della serie: noi non molliamo, ma neanche ci facciamo ammollare, quindi ci prepariamo a uscire. Non ci stiamo a soffocare nel mentre siamo contributori netti dell’Unione europea (diamo più soldi di quanti ne prendiamo) e non riconosciamo ai tedeschi il diritto di farci concorrenza sleale, con aziende che accedono al credito grazie a sostanziali aiuti di Stato (con banche pericolanti e dai bilanci equivoci). Se l’Europa diventa anti-europeista noi europeisti imbocchiamo la porta. Quando la crisi dei debiti sovrani cominciò la Bundesbank fece girare la notizia di avere un piano per portare fuori la Germania. E’ ora di presentare il nostro. Prima ci sarà e meno sarà necessario usarlo.
4. Abbiamo una giustizia che fa schifo, ma non siamo capaci di cambiarla (che pena, e sì che sarebbe facile). Creiamo una sede arbitrale specializzata per gli investitori esteri nel capitale di rischio, fornendo al mondo un testo unico dei diritti e dei doveri dell’impresa, in Italia. Già con questo i solchi essiccati torneranno a vedere scorrere liquidità, rigermoglieranno le aziende capaci e si creerà gettito fiscale.
Bastano queste cose. Ne servirebbero molte altre, ma bastano queste e l’Italia fa un balzo in avanti. Ci saranno scompensi, qualcuno soffrirà, le fasce che campano di trasferimenti pubblici (anche imprese) sentiranno dolore, ma il guizzo vitale porterà tutti, anche questi, fuori dalla pozza nella quale siamo finiti. Questo è il lavoro da farsi, senza star lì a menarla sul solo punto di Iva, che nel migliore dei casi restiamo dove siamo, e nel peggiore aumenteremo l’aliquota vedendo scendere il gettito. Serve molto di più.
Avverto chi governa che non gliene frega niente a nessuno delle larghe o delle strette intese, che tutti loro sono accompagnati da un collettivo giudizio di sfiducia, che andare in giro a non dire un accidente nuoce alla loro già precaria salute e che pensare di aspettare settembre è una pessima idea. Silenzio e lavoro. Fateci vedere che ancora capite in che situazione siamo.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.