La rete Telecom e il no alla Cdp
Contribuente nella Rete
Tradotto in altri termini, caro contribuente: tu paghi e loro comandano. Vero che sei contento? Lo immaginavodi Davide Giacalone - 20 settembre 2012
Avviso al contribuente: te la ricordi la rete di Sip, che pagasti di tasca tua, sia come cittadino che come utente, salvo poi essere venduta nel modo peggiore possibile, dopo averla traslocata in Telecom Italia? ricordi la rete internazionale di Italcable, che pagarono i tuoi parenti emigrati in Argentina, per poi vederla finire in Telecom, facendo la stessa fine di cui sopra? ricordi che in quel giro di reti e società tutti hanno fatto i soldi (da Carlo De Benedetti, grazie alla rete delle ferrovie, a Colaninno e i capitani coraggiosi)? ricordi che fosti l’unico beffato, perché quel patrimonio era tuo ed è stato depredato? ecco, se hai buona memoria apprezzerai la notizia: adesso i tuoi soldi saranno rimessi in quella rete, perché casca a pezzi, nessuno investe e, allora, hanno deciso che a pagare sarai tu. Contento? Bravo.
A volerla raccontare in modo apparentemente più tecnico, la cosa funziona così: Telecom Italia si mostra disponibile a separare societariamente la rete, in particolare la parte in rame, quella, insomma, che dovrebbe stare in un museo e da cui passano, invece, ancora la gran parte delle nostre comunicazioni, comprese quelle di internet (non)veloce, sicché è pronta ad accogliere la Cassa Depositi e Prestiti quale socio. Ma chi è la Cdp? Lo Stato, ovvero quella stessa mano che vendette, prendendo pochi soldi e cedendo tanto valore, ora è pronta a comprare, pagando tanti soldi per acquisire poco valore. Un affarone.
Eppure sarebbe accettabile, se solo servisse ad avere (con colpevole ritardo e dopo avere buttato montagne di quattrini) una società delle reti, indipendente da tutti gli operatori, o da tutti egualmente partecipata, in modo che questi offrano, a parità di condizioni, i loro servizi. Invece no, perché Telecom fa sapere che l’investimento di Cdp è ben venuto, ma essi non intendono perdere il controllo totale, mantenendo più della metà del capitale sociale.
Tradotto in altri termini, caro contribuente: tu paghi e loro comandano. Vero che sei contento? Lo immaginavo.
Si dice: questo è l’unico modo per ottenere un salto tecnologico, di cui il Paese ha bisogno, giacché, altrimenti, Telecom non scuce un soldo, dato che la gestione Colannino la tramortì di debiti e quella Tronchetti Provera ha aggravato la situazione, entrambe occupate a prendere anziché intraprendere. Ma dove sta scritto, che è l’unico modo? Telecom è legata allo Stato da un contratto di servizi, quel che deve assicurare a tutti lo stabilisce l’autorità competente (in Brasile l’Anatel si è dimostrata più saggia e attenta della nostra Agcom, che, invece, permette una totale e ingiusta disomogeneità di servizi offerti, sul territorio nazionale, concedendo, però, l’omogeneità tariffaria). Quindi: se la società non è in grado d’investire perde i diritti che vanta, e altri possono entrare e lavorare al suo posto. Qui, invece, si procede all’opposto: prima si suppone che la rete sia un affare privato di Telecom, poi, siccome non regge, si provvede a preparare dobloni pubblici per puntellarla.
Dalla metà degli anni novanta, in questo tira e molla, si sono ottenuti tre favolosi risultati: a. il patrimonio pubblico è divenuto profitto privato, in gran parte all’estero, intestato a società anonime; b. la rete fissa s’è impoverita, fino al collasso; c. una multinazionale italiana è stata trasformata in una baracca squilibrata dai debiti e con gli spagnoli di Telefonica quali primi azionisti (posto che prima di tali capolavori quello spagnolo era, a confronto di Telecom, un operatore dialettale).
Direi che può bastare. Che se i soldi pubblici devono tornare a sovvenzionare questa macchina si richiede un piccolo gesto, da parte di chi non è stato capace di fare altrimenti: lasci le chiavi e si allontani.
A volerla raccontare in modo apparentemente più tecnico, la cosa funziona così: Telecom Italia si mostra disponibile a separare societariamente la rete, in particolare la parte in rame, quella, insomma, che dovrebbe stare in un museo e da cui passano, invece, ancora la gran parte delle nostre comunicazioni, comprese quelle di internet (non)veloce, sicché è pronta ad accogliere la Cassa Depositi e Prestiti quale socio. Ma chi è la Cdp? Lo Stato, ovvero quella stessa mano che vendette, prendendo pochi soldi e cedendo tanto valore, ora è pronta a comprare, pagando tanti soldi per acquisire poco valore. Un affarone.
Eppure sarebbe accettabile, se solo servisse ad avere (con colpevole ritardo e dopo avere buttato montagne di quattrini) una società delle reti, indipendente da tutti gli operatori, o da tutti egualmente partecipata, in modo che questi offrano, a parità di condizioni, i loro servizi. Invece no, perché Telecom fa sapere che l’investimento di Cdp è ben venuto, ma essi non intendono perdere il controllo totale, mantenendo più della metà del capitale sociale.
Tradotto in altri termini, caro contribuente: tu paghi e loro comandano. Vero che sei contento? Lo immaginavo.
Si dice: questo è l’unico modo per ottenere un salto tecnologico, di cui il Paese ha bisogno, giacché, altrimenti, Telecom non scuce un soldo, dato che la gestione Colannino la tramortì di debiti e quella Tronchetti Provera ha aggravato la situazione, entrambe occupate a prendere anziché intraprendere. Ma dove sta scritto, che è l’unico modo? Telecom è legata allo Stato da un contratto di servizi, quel che deve assicurare a tutti lo stabilisce l’autorità competente (in Brasile l’Anatel si è dimostrata più saggia e attenta della nostra Agcom, che, invece, permette una totale e ingiusta disomogeneità di servizi offerti, sul territorio nazionale, concedendo, però, l’omogeneità tariffaria). Quindi: se la società non è in grado d’investire perde i diritti che vanta, e altri possono entrare e lavorare al suo posto. Qui, invece, si procede all’opposto: prima si suppone che la rete sia un affare privato di Telecom, poi, siccome non regge, si provvede a preparare dobloni pubblici per puntellarla.
Dalla metà degli anni novanta, in questo tira e molla, si sono ottenuti tre favolosi risultati: a. il patrimonio pubblico è divenuto profitto privato, in gran parte all’estero, intestato a società anonime; b. la rete fissa s’è impoverita, fino al collasso; c. una multinazionale italiana è stata trasformata in una baracca squilibrata dai debiti e con gli spagnoli di Telefonica quali primi azionisti (posto che prima di tali capolavori quello spagnolo era, a confronto di Telecom, un operatore dialettale).
Direi che può bastare. Che se i soldi pubblici devono tornare a sovvenzionare questa macchina si richiede un piccolo gesto, da parte di chi non è stato capace di fare altrimenti: lasci le chiavi e si allontani.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.