Monetizzare i licenziamenti
Come la Grecia
Le imprese dovrebbero avere maggiore responsabilità sociale, quindi meno tassedi Davide Giacalone - 22 marzo 2012
Ci spezzeremo le reni, come la Grecia. La frase mussoliniana, che annunciava la guerra, si risolse in ridicolo e tragedia, talché i tedeschi dovettero correre in soccorso di truppe allo sbando. Volendo un riferimento meno negativo potremmo dire: famolo alla greca. Perché le misure adottate e in via d’adozione, non spezzettate ed esaminate separatamente, ma prese nell’insieme, sono tali da lasciare intendere che l’Italia è già da considerarsi in bancarotta e, come è accaduto per la Grecia, non potendo svalutare verso l’esterno lo fa verso l’interno. Non potendo svalutare la moneta si svaluta il tenore di vita. Con tutto il rispetto per gli spread che scendono e i totem che cadono, è una via sbagliata.
A questa conclusione giungo osservando la posologia. Il farmaco in sé può andare bene, ma non basta la parola (quello era il confetto Falqui, con effetti liberatori, ma non socializzanti), conta il modo e la quantità. E’ un bene che si parli di mobilità del lavoro in uscita, ma non serve a crescere se non si rende più fluida la mobilità in entrata. E’ un bene che si ricorra al giudice solo per i licenziamenti discriminatori, ma se tempi e sostanza giurisdizionali restano quelli che si sono fin qui visti non cambia molto. Il punto più delicato è: non si può indirizzarsi ai lavoratori proponendo loro una pillola che significa minore sicurezza e stabilità del posto di lavoro e una puntura che comporta più tasse (che crescono, eccome, perché quei lavoratori sono cittadini che posseggono una casa e consumano). Dovrebbe accadere il contrario: più mobilità e meno tasse. Sul fronte datoriale è bene che si monetizzino i licenziamenti. E’ bene che chi assume non consideri i frutti dei propri errori come un onere sociale. Ed è bene che, in questo, non ci siano differenze basate sul numero di lavoratori assunti. Ma non si può proporre lo sciroppo dei maggiori oneri per i licenziamenti nel mentre si somministra la duplice supposta di maggiori tasse e nessun credito.
Dovrebbe essere il contrario: maggiore responsabilità sociale delle imprese, quindi meno tasse. Più produttività, quindi più credito. Se la posologia è quella che vediamo si finisce con il trasformare tutti in quel che sono già divenute le decantate e superfregate “partite iva”: lavoratori senza tutele, altamente tassati, privi di credito e capaci di campare perché ancora hanno famiglie in grado di compensare la differenza fra il loro reddito fasullo e i loro consumi reali. Cittadini relegati in un pezzo del mercato in cui si stanno mangiando il passato senza propiziare il futuro. Cittadini non distinti in padroni e operai, in datori e dipendenti, primi d’identità classista non perché privi d’ideologia (che sarebbe un bene), ma perché privi di ruolo. Quando si può allargare questa fascia, quanto la si può estendere da una generazione all’altra, senza far saltare tutto?
Si dice: ma che vuoi, una classe politica imbelle e di ladri ha creato un immane debito pubblico, che ora i poveri disgraziati devono pagare. Questa è la teoria che porta alla fine delle democrazie, in un trionfo di violenza e rabbia sociale. Non è radicalmente falsa, ma non è neanche vera. E’ una falsa ricostruzione della storia. La più comoda. La più facile da far deglutire a chi deve subirne il dolore. Moralismo d’accatto, in quanto tale sommamente immorale. Invece vedo una via diversa: abbattimento del debito pubblico mediante massicce privatizzazioni e dismissioni; abbattimento della pressione fiscale; liberalizzazione del mercato interno. Una lingua che parla alle menti e ai cuori, senza restare impappinata nel cinismo dei profittatori e nel terrore delle vittime.
Alla nascita del governo Monti si volle sottolineare, in dottrina e in politica, la negatività della tassa patrimoniale, considerandola recessiva. Ci troviamo con tasse patrimoniali e prelievi duraturi di ricchezza, per trasfusioni ad un debito pubblico che non cala. Sottoposti a salasso di tipo ellenico. Vedo, però, che c’è consumata abilità nel parlar d’altro, portando ciascuno a riconoscersi in parte delle misure adottate e nel tifare per quelle che dispiacciono a chi ci dispiace. Come dire che la gran parte della politica merita la fine cui s’appresta.
A questa conclusione giungo osservando la posologia. Il farmaco in sé può andare bene, ma non basta la parola (quello era il confetto Falqui, con effetti liberatori, ma non socializzanti), conta il modo e la quantità. E’ un bene che si parli di mobilità del lavoro in uscita, ma non serve a crescere se non si rende più fluida la mobilità in entrata. E’ un bene che si ricorra al giudice solo per i licenziamenti discriminatori, ma se tempi e sostanza giurisdizionali restano quelli che si sono fin qui visti non cambia molto. Il punto più delicato è: non si può indirizzarsi ai lavoratori proponendo loro una pillola che significa minore sicurezza e stabilità del posto di lavoro e una puntura che comporta più tasse (che crescono, eccome, perché quei lavoratori sono cittadini che posseggono una casa e consumano). Dovrebbe accadere il contrario: più mobilità e meno tasse. Sul fronte datoriale è bene che si monetizzino i licenziamenti. E’ bene che chi assume non consideri i frutti dei propri errori come un onere sociale. Ed è bene che, in questo, non ci siano differenze basate sul numero di lavoratori assunti. Ma non si può proporre lo sciroppo dei maggiori oneri per i licenziamenti nel mentre si somministra la duplice supposta di maggiori tasse e nessun credito.
Dovrebbe essere il contrario: maggiore responsabilità sociale delle imprese, quindi meno tasse. Più produttività, quindi più credito. Se la posologia è quella che vediamo si finisce con il trasformare tutti in quel che sono già divenute le decantate e superfregate “partite iva”: lavoratori senza tutele, altamente tassati, privi di credito e capaci di campare perché ancora hanno famiglie in grado di compensare la differenza fra il loro reddito fasullo e i loro consumi reali. Cittadini relegati in un pezzo del mercato in cui si stanno mangiando il passato senza propiziare il futuro. Cittadini non distinti in padroni e operai, in datori e dipendenti, primi d’identità classista non perché privi d’ideologia (che sarebbe un bene), ma perché privi di ruolo. Quando si può allargare questa fascia, quanto la si può estendere da una generazione all’altra, senza far saltare tutto?
Si dice: ma che vuoi, una classe politica imbelle e di ladri ha creato un immane debito pubblico, che ora i poveri disgraziati devono pagare. Questa è la teoria che porta alla fine delle democrazie, in un trionfo di violenza e rabbia sociale. Non è radicalmente falsa, ma non è neanche vera. E’ una falsa ricostruzione della storia. La più comoda. La più facile da far deglutire a chi deve subirne il dolore. Moralismo d’accatto, in quanto tale sommamente immorale. Invece vedo una via diversa: abbattimento del debito pubblico mediante massicce privatizzazioni e dismissioni; abbattimento della pressione fiscale; liberalizzazione del mercato interno. Una lingua che parla alle menti e ai cuori, senza restare impappinata nel cinismo dei profittatori e nel terrore delle vittime.
Alla nascita del governo Monti si volle sottolineare, in dottrina e in politica, la negatività della tassa patrimoniale, considerandola recessiva. Ci troviamo con tasse patrimoniali e prelievi duraturi di ricchezza, per trasfusioni ad un debito pubblico che non cala. Sottoposti a salasso di tipo ellenico. Vedo, però, che c’è consumata abilità nel parlar d’altro, portando ciascuno a riconoscersi in parte delle misure adottate e nel tifare per quelle che dispiacciono a chi ci dispiace. Come dire che la gran parte della politica merita la fine cui s’appresta.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.