Vero strumento per l’esercizio dei diritti ?
Class action: una vicenda emblematica
Non si può pensare di modernizzare il Paese con delle forzature conservatricidi Enrico Cisnetto - 19 novembre 2007
Non c’è vicenda più emblematica delle contraddizioni italiane dell’introduzione nella nostra legislazione dell’istituto della class action. In termini di principio, è difficile sostenere che si tratti di uno strumento per l’esercizio dei diritti dei consumatori e utenti a cui un paese moderno non può assolutamente rinunciare. Anzi, una volta assodata la volontà di adottarla, la class action avrebbe dovuto e potuto rappresentare l’occasione giusta per mettere mano all’intero sistema della giustizia civile, che da tempo versa in condizioni fallimentari. Il che significava, dal punto di vista dell’iter parlamentare, metterla sul binario delle commissioni Giustizia e Affari Costituzionali, non fosse altro per evitare un lungo contenzioso di ammissibilità costituzionale costruito intorno all’articolo 24. Invece, si è voluto inserire il provvedimento dentro la Finanziaria – in questi anni sempre più inzeppata di materie ordinamentali che non ci dovrebbero essere – forse perchè in carenza di contenuti strategici si sperava di dare alla legge di bilancio una qualche maggiore dignità. Cosa che non ha consentito di discutere la normativa nello specifico, dando modo a chi avversa la class action – per tutelare interessi o anche per ragioni culturali – di criticare con ragione la procedura evitando di entrare nel merito.
Ma anche il testo si presta a molte riserve. Intanto perchè si consegna il diritto esclusivo di rappresentare le parti lese alla “casta” delle associazioni dei consumatori, quel Politburo che l’Associazione Giovani Avvocati ha definito l’unico beneficiario della “fals action”. Poi perchè la modalità prevista è a dir poco burocratica, visto che ci vogliono tre giudizi di tre gradi ciascuno – un totale di 9 processi che in Italia significano 20 anni di tempo, come ha giustamente fatto notare il Codacons (nell’occasione unica associazione consumeristica fuori dal coro) – per arrivare alla sentenza definitiva.
Infine nulla si dice su un punto decisivo, il “patto di quota lite”, la norma che negli Stati Uniti consente agli avvocati di essere pagati con una percentuale sull’esito della clausola. Cosa che se da un lato fa risparmiare le spese legali alla “classe” che intenta la causa, dall’altro induce ad una “caccia” all’occasione (vera o presunta) di “giustizia” che ha finito con lo snaturare la filosofia stessa della class action. Non aver affrontato il problema così spinoso avrà certo facilitato l’adozione dell’istituto, ma ha lasciato un buco che ora è auspicabile che alla Camera venga in qualche modo riempito. Così come si spera che l’intero impianto venga rivisto, anche se per assicurare un esame meditato e mediazioni ragionate bisognerebbe stralciare la norma dalla Finanziaria per metterla sui binari che gli sono propri. Capisco che l’obiezione possa essere: ma così la class action verrà ammazzata da chi, con una scusa o un’altra, non intende migliorarla ma farla fuori del tutto. Ma la contraddizione tutta italiana sta proprio qui: chi vuole modernizzare il Paese finisce col fare forzature che danno oggettivamente fiato ai conservatori.
Comunque, prendiamo il buono che c’è nella vicenda: la solenne affermazione del parlamento della necessità di dare ai cittadini italiani questa forma di tutela. E da qui partiamo per migliorare il merito. Magari prendendo spunto dall’offerta di fare dell’Antitrust un “filtro” sull’ammissibilità delle cause collettive venuta dal suo presidente Catricalà.
Ma anche il testo si presta a molte riserve. Intanto perchè si consegna il diritto esclusivo di rappresentare le parti lese alla “casta” delle associazioni dei consumatori, quel Politburo che l’Associazione Giovani Avvocati ha definito l’unico beneficiario della “fals action”. Poi perchè la modalità prevista è a dir poco burocratica, visto che ci vogliono tre giudizi di tre gradi ciascuno – un totale di 9 processi che in Italia significano 20 anni di tempo, come ha giustamente fatto notare il Codacons (nell’occasione unica associazione consumeristica fuori dal coro) – per arrivare alla sentenza definitiva.
Infine nulla si dice su un punto decisivo, il “patto di quota lite”, la norma che negli Stati Uniti consente agli avvocati di essere pagati con una percentuale sull’esito della clausola. Cosa che se da un lato fa risparmiare le spese legali alla “classe” che intenta la causa, dall’altro induce ad una “caccia” all’occasione (vera o presunta) di “giustizia” che ha finito con lo snaturare la filosofia stessa della class action. Non aver affrontato il problema così spinoso avrà certo facilitato l’adozione dell’istituto, ma ha lasciato un buco che ora è auspicabile che alla Camera venga in qualche modo riempito. Così come si spera che l’intero impianto venga rivisto, anche se per assicurare un esame meditato e mediazioni ragionate bisognerebbe stralciare la norma dalla Finanziaria per metterla sui binari che gli sono propri. Capisco che l’obiezione possa essere: ma così la class action verrà ammazzata da chi, con una scusa o un’altra, non intende migliorarla ma farla fuori del tutto. Ma la contraddizione tutta italiana sta proprio qui: chi vuole modernizzare il Paese finisce col fare forzature che danno oggettivamente fiato ai conservatori.
Comunque, prendiamo il buono che c’è nella vicenda: la solenne affermazione del parlamento della necessità di dare ai cittadini italiani questa forma di tutela. E da qui partiamo per migliorare il merito. Magari prendendo spunto dall’offerta di fare dell’Antitrust un “filtro” sull’ammissibilità delle cause collettive venuta dal suo presidente Catricalà.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.