Fabbrica Italia
Ci ho provato, ma non posso crederci
Fiom, Fabbrica Italia, quote di mercato. Tutto quello che non torna nel Marchionne pensiero.di Enrico Cisnetto - 21 settembre 2012
Caro Direttore, ti giuro che ci ho provato. Ho tentato di vedermi iscritto al partito “pro Marchionne” di cui il Foglio – più che legittimamente – si è messo alla testa. Ma non ci sono riuscito. Senza per questo essermi iscritto al “movimento rottamatori” di Della Valle.
Ho fatto lo sforzo di prenderla dal verso delle (quasi tutte) giuste posizioni assunte dalla Fiat in materia di organizzazione del lavoro e di contratti. Certo che sono d’accordo con il capo della Fiat, e in disaccordo pieno con la Fiom, quando reclama maggiore flessibilità, spinge sul recupero di produttività, provoca sulla necessità di una minore ingerenza del sindacato nella organizzazione delle linee di produzione. Ma non posso fare a meno di ricordare che al tempo dei referendum in fabbrica il suo atteggiamento era chiaramente rivolto alla ricerca dell’esasperazione del conflitto, e di essermi chiesto allora se non fosse dovuto ad un suo interesse a perdere, e non a vincere, quelle consultazioni. Per fortuna il buon senso dei lavoratori e di alcune sigle sindacali ha prevalso, ma mi è rimasto il dubbio: e se Marchionne avesse voluto prendere a pretesto la vittoria della Fiom per prendere cappello? Mi dirai: maligne supposizioni. Vero, ma l’alternativa era considerare mister maglioncino un emerito fesso, visto che faceva di tutto per perderli, quei referendum.
Poi mi sono ricordato di aver peccato secondo la massima andreottiana che “a pensar male…” anche quando nella primavera del 2010 (capperi, sono già passati due anni e mezzo), giudicai con aperto scetticismo il famoso piano Fabbrica Italia. E mi sono detto che essere recidivo rappresentava un punto a favore della mia riconversione “marchionnesca”. Solo che ora siamo qui a prendere atto della irrealizzabilità di quel piano d’investimenti. Per esplicita ammissione della Fiat. La quale dice, e molti osservatori con essa, che il crollo del mercato italiano – che nel 2012 arriverà ad immatricolare (che tra l’altro non vuol dire vendere, visto che si usa il trucco delle auto a “km zero”) solo 1,37 milioni di vetture – e la contrazione di quello europeo – dove però la quota Fiat è scesa al 6,5% nei primi otto mesi dell’anno con la punta minima del 5,2% ad agosto – hanno cambiato le condizioni rispetto al momento in cui quei progetti erano stati elaborati. Ma allora la recessione c’era già stata (2008-2009) e così la caduta dei consumi (auto in testa), la sovracapacità produttiva era più che evidente e la cifra di 20 miliardi indicata come livello degli investimenti appariva nettamente al di là delle possibilità della Fiat e dei suoi azionisti (che da anni non mettono un centesimo).
Dunque quanto è successo nel frattempo può aver reso ancor più inattendibile quel piano, ma non ha cambiato le carte in tavola. Inoltre, non riesco a togliermi dalla testa il (cattivo) pensiero che – 500 a parte, ma trattasi di operazione di nicchia – Marchionne non abbia tirato fuori un modello nuovo che uno e che non abbia coperto i buchi che si erano aperti nella gamma (non c’è più una berlina italiana in giro). Il mercato crollerà pure, ma se scendono le quote di Fiat, questo significa che Marchionne perde più di quanto non sia il generalo calo delle vendite. E questo vale sia in Europa – dove le vendite totali scendono di oltre il 6%, mentre quelle Fiat di più del 16% – che in Italia. Sono andato a controllare quale fosse la quota di mercato della casa torinese quando nel giugno 2004 Marchionne divenne amministratore delegato per salvare Fiat dal disastro: in Ue era del 6,7% e in Italia del 26,6%. Adesso sono rispettivamente del 6,5% (con tendenza al 5,2%) e del 29,6%: dove sta il successo del presunto risanatore che aveva indicato nei livelli di fine anni Novanta (in Ue il 10%, in Italia il 40%) il traguardo da raggiungere? Poi uno può dire che la curva dei redditi cala vertiginosamente, che la psicologia dei consumatori è sotto la suola delle scarpe, che siamo un paese e un continente ultramotorizzato dove non ha senso pensare a ritmi di crescita del mercato automobilistico come nel passato (ma questo valeva anche nel 2004). Ma da qui ad attribuire solo a fattori esogeni la crisi della Fiat, ce ne corre.
Tuttavia, alla disperata ricerca di motivi per cui credere che Marchionne non ci prendesse tutti in giro negli anni scorsi e altrettanto non lo faccia adesso quando afferma (intervista a Repubblica) che non farà più gli investimenti promessi ma comunque manterrà aperti gli stabilimenti nazionali e lascerà la Fiat in Italia, ho provato a capire se ci potevano essere motivi di speranza derivanti da un’eventuale operazione con Volkswagen sull’Alfa Romeo o integrazioni fruttuose (per noi) con Chrysler. Giuro che ci ho messo tutta la buona volontà, sarò pure un po’ ritardato ma non ne ho trovato traccia. Marchionne ha ritenuto di dover e poter mandare a quel paese non più tardi di qualche giorno fa i vertici proprio della Volkswagen, invece di domandarsi perchè quei manager sono riusciti a fare di VW il primo gruppo al mondo, superando i giapponesi di Toyota. Mentre è sempre più evidente che Fiat e Chrysler dovranno fondersi e testa e gambe di quel nuovo gruppo non potranno che stare negli Usa.
Cosa perfettamente legittima, e per certi versi comprensibile. Basterebbe dirlo con chiarezza.
Ho fatto lo sforzo di prenderla dal verso delle (quasi tutte) giuste posizioni assunte dalla Fiat in materia di organizzazione del lavoro e di contratti. Certo che sono d’accordo con il capo della Fiat, e in disaccordo pieno con la Fiom, quando reclama maggiore flessibilità, spinge sul recupero di produttività, provoca sulla necessità di una minore ingerenza del sindacato nella organizzazione delle linee di produzione. Ma non posso fare a meno di ricordare che al tempo dei referendum in fabbrica il suo atteggiamento era chiaramente rivolto alla ricerca dell’esasperazione del conflitto, e di essermi chiesto allora se non fosse dovuto ad un suo interesse a perdere, e non a vincere, quelle consultazioni. Per fortuna il buon senso dei lavoratori e di alcune sigle sindacali ha prevalso, ma mi è rimasto il dubbio: e se Marchionne avesse voluto prendere a pretesto la vittoria della Fiom per prendere cappello? Mi dirai: maligne supposizioni. Vero, ma l’alternativa era considerare mister maglioncino un emerito fesso, visto che faceva di tutto per perderli, quei referendum.
Poi mi sono ricordato di aver peccato secondo la massima andreottiana che “a pensar male…” anche quando nella primavera del 2010 (capperi, sono già passati due anni e mezzo), giudicai con aperto scetticismo il famoso piano Fabbrica Italia. E mi sono detto che essere recidivo rappresentava un punto a favore della mia riconversione “marchionnesca”. Solo che ora siamo qui a prendere atto della irrealizzabilità di quel piano d’investimenti. Per esplicita ammissione della Fiat. La quale dice, e molti osservatori con essa, che il crollo del mercato italiano – che nel 2012 arriverà ad immatricolare (che tra l’altro non vuol dire vendere, visto che si usa il trucco delle auto a “km zero”) solo 1,37 milioni di vetture – e la contrazione di quello europeo – dove però la quota Fiat è scesa al 6,5% nei primi otto mesi dell’anno con la punta minima del 5,2% ad agosto – hanno cambiato le condizioni rispetto al momento in cui quei progetti erano stati elaborati. Ma allora la recessione c’era già stata (2008-2009) e così la caduta dei consumi (auto in testa), la sovracapacità produttiva era più che evidente e la cifra di 20 miliardi indicata come livello degli investimenti appariva nettamente al di là delle possibilità della Fiat e dei suoi azionisti (che da anni non mettono un centesimo).
Dunque quanto è successo nel frattempo può aver reso ancor più inattendibile quel piano, ma non ha cambiato le carte in tavola. Inoltre, non riesco a togliermi dalla testa il (cattivo) pensiero che – 500 a parte, ma trattasi di operazione di nicchia – Marchionne non abbia tirato fuori un modello nuovo che uno e che non abbia coperto i buchi che si erano aperti nella gamma (non c’è più una berlina italiana in giro). Il mercato crollerà pure, ma se scendono le quote di Fiat, questo significa che Marchionne perde più di quanto non sia il generalo calo delle vendite. E questo vale sia in Europa – dove le vendite totali scendono di oltre il 6%, mentre quelle Fiat di più del 16% – che in Italia. Sono andato a controllare quale fosse la quota di mercato della casa torinese quando nel giugno 2004 Marchionne divenne amministratore delegato per salvare Fiat dal disastro: in Ue era del 6,7% e in Italia del 26,6%. Adesso sono rispettivamente del 6,5% (con tendenza al 5,2%) e del 29,6%: dove sta il successo del presunto risanatore che aveva indicato nei livelli di fine anni Novanta (in Ue il 10%, in Italia il 40%) il traguardo da raggiungere? Poi uno può dire che la curva dei redditi cala vertiginosamente, che la psicologia dei consumatori è sotto la suola delle scarpe, che siamo un paese e un continente ultramotorizzato dove non ha senso pensare a ritmi di crescita del mercato automobilistico come nel passato (ma questo valeva anche nel 2004). Ma da qui ad attribuire solo a fattori esogeni la crisi della Fiat, ce ne corre.
Tuttavia, alla disperata ricerca di motivi per cui credere che Marchionne non ci prendesse tutti in giro negli anni scorsi e altrettanto non lo faccia adesso quando afferma (intervista a Repubblica) che non farà più gli investimenti promessi ma comunque manterrà aperti gli stabilimenti nazionali e lascerà la Fiat in Italia, ho provato a capire se ci potevano essere motivi di speranza derivanti da un’eventuale operazione con Volkswagen sull’Alfa Romeo o integrazioni fruttuose (per noi) con Chrysler. Giuro che ci ho messo tutta la buona volontà, sarò pure un po’ ritardato ma non ne ho trovato traccia. Marchionne ha ritenuto di dover e poter mandare a quel paese non più tardi di qualche giorno fa i vertici proprio della Volkswagen, invece di domandarsi perchè quei manager sono riusciti a fare di VW il primo gruppo al mondo, superando i giapponesi di Toyota. Mentre è sempre più evidente che Fiat e Chrysler dovranno fondersi e testa e gambe di quel nuovo gruppo non potranno che stare negli Usa.
Cosa perfettamente legittima, e per certi versi comprensibile. Basterebbe dirlo con chiarezza.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.