Conti correnti a rischio
Ci espropriano Bankitalia per ridurci come Cipro
Con la rivalutazione delle quote cresce la ricchezza degli azionisti. E l'europa studia un prelievo forzoso sui risparmi privatidi Davide Giacalone - 07 dicembre 2013
Sta per passarci addosso un elefante, ma i più guardano nell’angolo dell’aia, dove si combattono galletti spennacchiati. E’ in gestazione una maxi-patrimoniale, una vera e propria aggressione al risparmio delle famiglie e al patrimonio collettivo, ma da mesi ci si sbertuccia su 4 miserabili miliardi di Imu (per poi pagare). Corriamo il rischio d’essere sbancati, ma ci distraiamo lasciando che sia la Corte costituzionale a stabilire come si vota e il Tar a decidere come ci si cura. Ho scritto e riscritto che l’Italia è un Paese ricco e forte. Oggi lancio un grido, perché una classe dirigente ridicola sta consentendo che ci piallino.
Qui siamo stati i primi a segnalare la follia del volere trasformare la Banca d’Italia in una public company. Non siamo rimasti gli unici, ma poco ci manca. Qualche vocina. Mai le prime pagine. Intanto il Senato ha già votato a favore della costituzionalità del decreto legge, mentre l’assemblea straordinaria della Banca centrale potrebbe tenersi il 23 dicembre. Data che, di suo, desta mille sospetti. M’è venuto il dubbio d’essere stato esagerato, ma mi sono accorto di avere sottovalutato il pericolo.
Per capire quel che succederà si devono tenere a mente due passaggi, spiegati male o non spiegati affatto al grande pubblico: a. dal primo gennaio scorso i titoli di Stato recano stampate le regole CACs (di nome e di fatto), in base alle quali l’emittente, quindi lo Stato, potrebbe anche decidere di non rimborsare, di posticipare, di decurtare o di restituire il valore investito dandoti due gatti e una rapa; b. con la crisi di Cipro s’è fatto valere il principio che se metto i soldi in banca non sono un creditore tutelato dalla legge, ma un investitore che corre dei rischi.
Dalla prima cosa deriva che se banche e assicurazioni riempiono i propri portafogli di titoli di Stato, essendo quella la sola soluzione (praticata) alla crisi dei debiti sovrani, non per questo hanno un patrimonio affidabile. Quando Standard & Poor’s declassa Generali applica questo principio. Dalla seconda deriva che prima di mettere i soldi in banca dovrei esaminarne lo stato patrimoniale. Il che non è propriamente agevole. Non contenti di ciò, ora si arriva al dunque: i nemici dell’Europa, i demolitori dell’Unione, ovvero quei pazzi che ne indirizzano la politica economica e finanziaria, chiedono che se le singole banche mostreranno criticità negli stress test (misurazioni di solidità patrimoniale, fatti a cura della Banca centrale europea) già da subito, prima che la crisi scoppi, e già in presenza di aiuti di Stato, i depositanti debbano cominciare a pagare. Non è solo abominevole, come già lo fu la “soluzione” cipriota, è anche truffaldino: in alcuni paesi (ad esempio la Germania, guarda caso) lo Stato è azionista delle banche, quindi può intervenire a rifinanziarne il patrimonio senza che sia considerato un aiuto di Stato, ma solo un finanziamento degli azionisti. Mentre noi, che abbiamo la politica in banca per via delle fondazioni, ma non lo Stato fra gli azionisti, saremo i primi a mettere le mani nelle tasche dei risparmiatori.
Per evitare questo scenario, apocalittico, si sono inventati la rivalutazione delle quote Bankitalia, nonché l’obbligo di venderle se se ne possiede più del 5% (Intesa San Paolo ne possiede il 42.2 e Unicredit il 22.1%). In quel modo si aumenta il patrimonio delle banche, mettendole al riparo dagli stress test. Già che ci si trovano, l’erario incasserà un dividendo fiscale, pari a poco più di un miliardo. Chi paga? Noi tutti, perché il patrimonio della Banca non è affatto dei suoi azionisti, bensì della collettività. Gli azionisti sono, per legge, obbligati a considerare il valore come fissato dalla legge del 1936: 156mila euro (300 milioni di lire). Oggi lo Stato potrebbe, a nome di tutti, riprendersi la proprietà (comprendente gli accantonamenti per signoraggio, arbitraggi sui cambi e oro) a quella cifra simbolica. Invece la rivalutiamo, realizzando una gigantesca patrimoniale collettiva. E non per abbattere il debito pubblico, ma per rimpolpare il patrimonio delle banche.
Tutto questo a cura di un Parlamento che è formalmente al suo posto, ma politicamente, sostanzialmente e ragionevolmente privo della legittimità nel rappresentare gli italiani, visto che è stato eletto non con una legge brutta o sbagliata (questo lo scriviamo da prima che l’approvassero), ma incostituzionale.
Due sono le cose da farsi, subito: 1. porre un veto a che l’Europa proceda in quel senso, così tutelando i nostri interessi (le nostre banche sono meno tarlate di quelle tedesche o francesi, avendo speculato meno sui titoli tossici, ma sono fiaccate da una crisi che deteriora i crediti), e anche conquistandoci la palma di ultimi difensori dell’Europa dai suoi nemici; 2. fermare il decreto che distrugge la nostra Banca centrale, facendola divenire un unicum mondiale (sono tutte possedute dagli stati, anche laddove quotate). Ci sono cose sulle quali non si media. Questa è una di quelle.
Qui siamo stati i primi a segnalare la follia del volere trasformare la Banca d’Italia in una public company. Non siamo rimasti gli unici, ma poco ci manca. Qualche vocina. Mai le prime pagine. Intanto il Senato ha già votato a favore della costituzionalità del decreto legge, mentre l’assemblea straordinaria della Banca centrale potrebbe tenersi il 23 dicembre. Data che, di suo, desta mille sospetti. M’è venuto il dubbio d’essere stato esagerato, ma mi sono accorto di avere sottovalutato il pericolo.
Per capire quel che succederà si devono tenere a mente due passaggi, spiegati male o non spiegati affatto al grande pubblico: a. dal primo gennaio scorso i titoli di Stato recano stampate le regole CACs (di nome e di fatto), in base alle quali l’emittente, quindi lo Stato, potrebbe anche decidere di non rimborsare, di posticipare, di decurtare o di restituire il valore investito dandoti due gatti e una rapa; b. con la crisi di Cipro s’è fatto valere il principio che se metto i soldi in banca non sono un creditore tutelato dalla legge, ma un investitore che corre dei rischi.
Dalla prima cosa deriva che se banche e assicurazioni riempiono i propri portafogli di titoli di Stato, essendo quella la sola soluzione (praticata) alla crisi dei debiti sovrani, non per questo hanno un patrimonio affidabile. Quando Standard & Poor’s declassa Generali applica questo principio. Dalla seconda deriva che prima di mettere i soldi in banca dovrei esaminarne lo stato patrimoniale. Il che non è propriamente agevole. Non contenti di ciò, ora si arriva al dunque: i nemici dell’Europa, i demolitori dell’Unione, ovvero quei pazzi che ne indirizzano la politica economica e finanziaria, chiedono che se le singole banche mostreranno criticità negli stress test (misurazioni di solidità patrimoniale, fatti a cura della Banca centrale europea) già da subito, prima che la crisi scoppi, e già in presenza di aiuti di Stato, i depositanti debbano cominciare a pagare. Non è solo abominevole, come già lo fu la “soluzione” cipriota, è anche truffaldino: in alcuni paesi (ad esempio la Germania, guarda caso) lo Stato è azionista delle banche, quindi può intervenire a rifinanziarne il patrimonio senza che sia considerato un aiuto di Stato, ma solo un finanziamento degli azionisti. Mentre noi, che abbiamo la politica in banca per via delle fondazioni, ma non lo Stato fra gli azionisti, saremo i primi a mettere le mani nelle tasche dei risparmiatori.
Per evitare questo scenario, apocalittico, si sono inventati la rivalutazione delle quote Bankitalia, nonché l’obbligo di venderle se se ne possiede più del 5% (Intesa San Paolo ne possiede il 42.2 e Unicredit il 22.1%). In quel modo si aumenta il patrimonio delle banche, mettendole al riparo dagli stress test. Già che ci si trovano, l’erario incasserà un dividendo fiscale, pari a poco più di un miliardo. Chi paga? Noi tutti, perché il patrimonio della Banca non è affatto dei suoi azionisti, bensì della collettività. Gli azionisti sono, per legge, obbligati a considerare il valore come fissato dalla legge del 1936: 156mila euro (300 milioni di lire). Oggi lo Stato potrebbe, a nome di tutti, riprendersi la proprietà (comprendente gli accantonamenti per signoraggio, arbitraggi sui cambi e oro) a quella cifra simbolica. Invece la rivalutiamo, realizzando una gigantesca patrimoniale collettiva. E non per abbattere il debito pubblico, ma per rimpolpare il patrimonio delle banche.
Tutto questo a cura di un Parlamento che è formalmente al suo posto, ma politicamente, sostanzialmente e ragionevolmente privo della legittimità nel rappresentare gli italiani, visto che è stato eletto non con una legge brutta o sbagliata (questo lo scriviamo da prima che l’approvassero), ma incostituzionale.
Due sono le cose da farsi, subito: 1. porre un veto a che l’Europa proceda in quel senso, così tutelando i nostri interessi (le nostre banche sono meno tarlate di quelle tedesche o francesi, avendo speculato meno sui titoli tossici, ma sono fiaccate da una crisi che deteriora i crediti), e anche conquistandoci la palma di ultimi difensori dell’Europa dai suoi nemici; 2. fermare il decreto che distrugge la nostra Banca centrale, facendola divenire un unicum mondiale (sono tutte possedute dagli stati, anche laddove quotate). Ci sono cose sulle quali non si media. Questa è una di quelle.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.