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L'editoriale di Società Aperta

Chi si accontenta non gode

Provvedimenti giusti ma limitati. Ora Letta deve alzare il livello delle ambizioni

di Enrico Cisnetto - 28 giugno 2013

Enrico Letta è come Mario Draghi: guadagna tempo. Il presidente della Bce lo fa, a Francoforte, per evitare che l’Europa si trovi impreparata davanti al bivio cruciale che la costringa a scegliere tra fare l’integrazione politico-istituzionale che serve a mantenere in vita l’euro o tornare alle moneta nazionali perché l’eurosistema implode. Ma facendo così, Draghi sa bene che più di tanto non potrà procrastinare l’appuntamento con l’ora della verità: spera solo che nel frattempo aumenti la consapevolezza delle scelte da compiere e delle conseguenze nel caso non vengano fatte. Il nostro presidente del Consiglio lo fa, a Roma, per evitare che l’Italia si ritrovi senza governo, e in particolare che soffochi sul nascere l’esperienza – fondamentale in una situazione di crisi strutturale come questa – delle “larghe intese”, di cui il premier è genuino assertore da tempo (e in tempi non sospetti). Ma, siano convinti, che anche lui sappia che così facendo si potrà pure guadagnare settembre, ma poi i nodi verranno inesorabilmente al pettine.

E che la doppia manovra degli ultimi giorni, “decreto fare” più provvedimenti sull’occupazione, appartenga alla categoria del “comprare tempo”, crediamo proprio non vi siano dubbi. Si tratta, sia chiaro, di interventi positivi – al di là di difetti di dettaglio – ma che non hanno, per dimensione e profondità, alcuna possibilità di intaccare i problemi strutturali. Un esempio per tutti. Se nell’ultimo anno la recessione ha prodotto 373 mila disoccupati, portando a oltre tre milioni la cifra complessiva dei senza lavoro, un intervento come quello studiato per i giovani, anche ammesso che riesca nell’intento di soddisfare pienamente la platea potenziale di 200 mila persone che si è prefisso come obiettivo, può al massimo intaccare poco più della metà dei nuovi disoccupati, il 6% dell’intero esercito dei senza lavoro. Bene. Ma una goccia nel mare.

Abbiamo ripetuto più volte, noi di TerzaRepubblica, che per la nostra economia, i cui problemi risalgono a ben prima dell’inizio della grande crisi mondiale, occorre invece una cura choc. Un piano Marshall di cui abbiamo già delineato i contorni, basati su un recupero straordinario di risorse dal patrimonio pubblico e privato e da una riduzione significativa della spesa pubblica corrente, da usarsi in un piano altrettanto straordinario di investimenti (diretti e attraverso il taglio del carico fiscale su imprese e lavoro). Programma che non può certo dipendere dalle “concessioni” che saremo capaci di strappare in Europa: per quanto saremo abili a convincere i nostri partner – come ha fatto Letta sul tema del lavoro nell’ultimo vertice Ue – e per quanto il Vecchio Continente capisca che gli eccessi nella politica di austerità hanno fatto male a tutti, propugnatori compresi, comunque non potranno assolutamente trovarsi nei nuovi margini di flessibilità europei le risorse, calcolabili in almeno un paio di centinaia di miliardi, che sono necessarie per realizzare una politica di new deal.

Quando si è perso il 10% della ricchezza, si è registrato un calo di quarto della produzione manifatturiera ed è andato perduto il 15% della base produttiva industriale, quando i disoccupati superano i tre milioni, i giovani senza lavoro sono oltre un terzo del totale, gli investimenti sono pressochè azzerati, ci vuol altro che i “piccoli passi”. Il Paese va rimesso in moto e si deve rimettere in gioco, e perché questo avvenga ci vogliono tante risorse e un approccio tutt’altro che minimalista. Per questo, o la strategia del “guadagnare tempo” messa in campo da Letta serve a creare le condizioni politiche perché si possa presto allungare il passo – e allora bene la sua prudenza – oppure essa delimita il raggio d’azione di questa maggioranza , e allora è preferibile dircelo subito e mettersi al lavoro nel tentativo di trovare nuovi e diversi equilibri.

In questi giorni i sismografi che misurano le quotidiane fibrillazioni della politica ci hanno segnalato pericoli derivanti dalle tensioni createsi intorno al Pdl e dentro il Pd. In tutta sincerità, non sono queste le cose che ci preoccupano di più. Per ora siamo nel fisiologico, considerato che veniamo da due decenni di bipolarismo guerreggiato. Certo, come abbiamo detto la settimana scorsa, la vicenda Berlusconi pesa, ma – al di là della doppia convenienza a strumentalizzarla – per ora non dovrebbe produrre conseguenze letali per il governo. Ciò che più conta, invece, è la consapevolezza e il coraggio che l’esecutivo ha nel pianificare la propria politica. Tradotto: se Letta ha fatto fin qui il minimalista per lasciar sfogare i falchi dei due partiti della strana maggioranza e trovare una qualche stabilità anche garantita da una inedita disponibilità europea nei nostri confronti, per poi alzare la posta, allora gli andrà riconosciuta una capacità di manovra politica di grande livello e potrà proseguire nella legislatura con ottimi risultati; altrimenti, se ai piccoli passi ne seguiranno altri della stessa portata, allora saranno guai.

Guadagniamo pure settembre – che peraltro è già fin d’ora gravato dei rinvii di dossier come Iva, Imu, Tares, missioni militari, ecc. – ma con la consapevolezza che andrà fatto un netto cambio di passo, spendendo una leadership che, pur inevitabilmente attenta alla mediazione, ponga i partiti di fronte alla responsabilità di sciogliere tutti i nodi politici e programmatici che una grande coalizione deve saper fronteggiare pena la sua fine. E siccome né Pd né Pdl, per motivi diversi ma convergenti, sono in grado di riaffrontare il mare aperto della tradizionale competizione politica – né il Paese se lo può permettere – altro non rimane a Letta che alzare il tiro. Accontentarsi è un subdolo viatico verso il peggio.

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