Il G-20 e la crisi siriana
Cercasi sceriffo
Urge un nuovo ordine mondiale euro-americano, ma noi siamo divisi e l'America si è isolatadi Enrico Cisnetto - 06 settembre 2013
Mentre il mondo si divide tra favorevoli e contrari all’intervento militare in Siria, e in attesa delle decisioni Usa, vale la pena ragionare sulla leadership americana nel mondo –sotto il profilo economico-finanziario, oltre che politico-militare – e sulla opportunità o meno che questa guida, o comunque una guida, ci sia. Credo che anche il più buonista dei pacifisti fatichi a non ammettere che i vantaggi derivanti dall’esistenza di un “ordine mondiale” siano maggiori degli svantaggi, e che viceversa un “non sistema” produca nazionalismi, egoismi e instabilità più che benefici effetti. Questo non vuol dire che “l’ordine” non debba essere policentrico, e che si possano formare “equilibri dinamici”, a geometria variabile. Ma una leadership, pur plurima, occorre. E se ciò vale sul terreno geo-politico a maggior ragione vale, dopo la Grande Crisi iniziata nel 2007 ed esplosa l’anno dopo con la vicenda Lehman, sul terreno economico e finanziario.
Perché se la sequenza “bolla immobiliare-crack bancari-crisi di liquidità-recessione-crisi dell’eurosistema” ha messo in difficoltà non solo le economie più consolidate ma anche quelle emergenti – tanto che la sigla Brics fatica a tenersi in vita – oggi più di ieri si sente il bisogno di un nuovo “ordine economico” mondiale, che punti allo sviluppo attraverso una più equilibrata distribuzione delle risorse e della ricchezza.
C’è dunque bisogno che Usa e Ue tornino a trainare lo sviluppo mondiale. Non sostituendosi ai paesi asiatici e sudamericani, ma affiancandoli nel ruolo di locomotiva. Ben sapendo che questo non è possibile senza che anche sul piano politico strategico Usa e Ue esprimano piena leadership. Ma esistono le condizioni per questo “nuovo equilibrio? Dal lato del Vecchio Continente lo sappiamo, finché le contraddizioni dell’eurosistema non saranno superate, non ci sarà crescita significativa e alcuna leadership geo-politica. Ma anche dal lato americano, verrebbe da dire di no. E comunque, paradossalmente, per gli Stati Uniti ci sono meno difficoltà sul terreno economico, pur con molti limiti, che non su quello geo-politico. Obama, distruggendo la Nato, sganciandosi da Israele e sbagliando in Cina, ha perso il ruolo di garante dell’Occidente e con esso la forza di disegnare gli equilibri globali, e dunque fatica a riprendere in mano la bacchetta del direttore d’orchestra. La ripresa economica c’è, e pure molto più marcata che in Europa, ma accentua il neo-isolazionismo americano.
Per almeno tre motivi. Da un lato, perché vede la grande finanza ancora padrona del campo, nonostante tutte le dichiarazioni di guerra che lo stesso Obama aveva lanciato, in una fase in cui tutto il resto del mondo vorrebbe evitare di tornare a pagare prezzi stratosferici alle bolle speculative anglo-americane. Una seconda ragione risiede nel fatto che una componente decisiva alla crescita ce l’ha lo shale gas, che ha sì ridotto i costi energetici del paese e in meno di cinque anni renderanno gli Usa esportatori di prodotti energetici, ma lo ha anche isolato su un terreno, quello dell’approvvigionamento energetico, da sempre snodo decisivo tra economia, politica e assetti militari. La terza e ultima ragione sta nella tipologia degli “spiriti animali” che gli Usa, molto più della vecchia e bolsa Europa, ha saputo riscatenare dopo la crisi: interessi immobiliari (ci risiamo); lavoro malpagato in un settore, quello del food, che da tre anni è in testa nella produzione di occupazione (è molto significativo lo sciopero dei fast-food, per chiedere un salario minimo decisamente più alto, visto che spesso per il ceto medio quel tipo di lavoro da integratore del reddito è diventato l’unica entrata); reindustrializzazione forte (basta con la delocalizzazione in Asia) ma ancora confusa e scarsamente capace di riaffermare la supremazia americana nelle tecnologie avanzate.
Tutto questo la dice lunga sulle difficoltà a 360 gradi di Obama: dopo quattro anni di recovery economica, gli Usa non sono sufficientemente forti né ricchi per continuare a fare gli sceriffi del mondo, e il neo-isolazionismo obamiano è figlio dell’accettazione dell’impotenza di fare la superpotenza.
Ma se gli Stati Uniti d’Europa restano un miraggio e se l’America non vuole più avere bisogno di noi e di noi non vuole più occuparsi, non sarà il caso, tra un digiuno francescano e l’altro, di aprire una riflessione?
Perché se la sequenza “bolla immobiliare-crack bancari-crisi di liquidità-recessione-crisi dell’eurosistema” ha messo in difficoltà non solo le economie più consolidate ma anche quelle emergenti – tanto che la sigla Brics fatica a tenersi in vita – oggi più di ieri si sente il bisogno di un nuovo “ordine economico” mondiale, che punti allo sviluppo attraverso una più equilibrata distribuzione delle risorse e della ricchezza.
C’è dunque bisogno che Usa e Ue tornino a trainare lo sviluppo mondiale. Non sostituendosi ai paesi asiatici e sudamericani, ma affiancandoli nel ruolo di locomotiva. Ben sapendo che questo non è possibile senza che anche sul piano politico strategico Usa e Ue esprimano piena leadership. Ma esistono le condizioni per questo “nuovo equilibrio? Dal lato del Vecchio Continente lo sappiamo, finché le contraddizioni dell’eurosistema non saranno superate, non ci sarà crescita significativa e alcuna leadership geo-politica. Ma anche dal lato americano, verrebbe da dire di no. E comunque, paradossalmente, per gli Stati Uniti ci sono meno difficoltà sul terreno economico, pur con molti limiti, che non su quello geo-politico. Obama, distruggendo la Nato, sganciandosi da Israele e sbagliando in Cina, ha perso il ruolo di garante dell’Occidente e con esso la forza di disegnare gli equilibri globali, e dunque fatica a riprendere in mano la bacchetta del direttore d’orchestra. La ripresa economica c’è, e pure molto più marcata che in Europa, ma accentua il neo-isolazionismo americano.
Per almeno tre motivi. Da un lato, perché vede la grande finanza ancora padrona del campo, nonostante tutte le dichiarazioni di guerra che lo stesso Obama aveva lanciato, in una fase in cui tutto il resto del mondo vorrebbe evitare di tornare a pagare prezzi stratosferici alle bolle speculative anglo-americane. Una seconda ragione risiede nel fatto che una componente decisiva alla crescita ce l’ha lo shale gas, che ha sì ridotto i costi energetici del paese e in meno di cinque anni renderanno gli Usa esportatori di prodotti energetici, ma lo ha anche isolato su un terreno, quello dell’approvvigionamento energetico, da sempre snodo decisivo tra economia, politica e assetti militari. La terza e ultima ragione sta nella tipologia degli “spiriti animali” che gli Usa, molto più della vecchia e bolsa Europa, ha saputo riscatenare dopo la crisi: interessi immobiliari (ci risiamo); lavoro malpagato in un settore, quello del food, che da tre anni è in testa nella produzione di occupazione (è molto significativo lo sciopero dei fast-food, per chiedere un salario minimo decisamente più alto, visto che spesso per il ceto medio quel tipo di lavoro da integratore del reddito è diventato l’unica entrata); reindustrializzazione forte (basta con la delocalizzazione in Asia) ma ancora confusa e scarsamente capace di riaffermare la supremazia americana nelle tecnologie avanzate.
Tutto questo la dice lunga sulle difficoltà a 360 gradi di Obama: dopo quattro anni di recovery economica, gli Usa non sono sufficientemente forti né ricchi per continuare a fare gli sceriffi del mondo, e il neo-isolazionismo obamiano è figlio dell’accettazione dell’impotenza di fare la superpotenza.
Ma se gli Stati Uniti d’Europa restano un miraggio e se l’America non vuole più avere bisogno di noi e di noi non vuole più occuparsi, non sarà il caso, tra un digiuno francescano e l’altro, di aprire una riflessione?
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.