Legge di (in)stabilità
C'è ancora tempo
L’instabilità della manovirina e le ragioni delle debolezze parallele dei partiti e del governodi Enrico Cisnetto - 26 ottobre 2012
Se il tiramolla sulla legge di (in)stabilità è il preannuncio di quanto avverrà dopo le elezioni, c’è da avere paura. Le critiche avanzate dai partiti, e in particolare da Pd e Pdl che pure hanno avvallato la linea Monti fin qui, non solo hanno un netto sapore pre-elettorale, ma mostrano una confusione mentale che fa temere il peggio sia nel caso che uno dei due vinca sia che, come è assai più probabile, il combinato disposto tra modalità di conteggio del voto e voglia degli italiani di mandare tutti a quel paese produca un nulla di fatto in salsa greca.
Infatti, è tutta una rincorsa a chi la spara più grossa nel raccontare che di sacrifici ne sono già stati fin troppi e che ora il tema è quello di restituire una parte del maltolto, considerando del tutto superata l’emergenza finanziaria che a novembre scorso, al suo apice, aveva portato Monti a palazzo Chigi. Una valutazione del tutto fuori dalla realtà, ma a sinistra viene usata sia per la presenza di Sel nella coalizione con il Pd – cementata in modo indissolubile dalle primarie all together – che spara cannonate contro “l’agenda Monti”, sia nel (disperato) tentativo di recuperare voti migranti verso Grillo. Mentre a destra, oltre al solito populismo, c’è una corrente di pensiero che tenta di dimostrare che quella dello spread non era (e tantomeno è ora) una pistola puntata alla nostra tempia, o meglio che con essa si poteva tranquillamente convivere, e che dunque i tagli e l’inasprimento fiscale voluti dal Professore non sono per nulla obbligatori. Leggermente più sofisticati quelli (pochi, a sinistra come a destra) che non negano la necessità del rigore, ma vorrebbero vederlo accompagnato da misure concrete per la crescita, anche se finiscono sempre per omettere di dire da dove si dovrebbero pescare le risorse (a parte le ricorrenti litanie su “spenniamo i ricchi”).
La verità, invece, è che l’emergenza non è affatto terminata – tanto per le condizioni di estrema debolezza dell’economia italiana, quanto per i nodi non sciolti nell’eurosistema – come dimostra sia il balzo in su del rapporto debito-pil, che ha varcato la soglia del 126%, sia la malcelata preoccupazione di Grilli (“il pareggio di bilancio è impresa difficile ma possibile”), che francamente fa a pugni con la retorica dell’azzeramento del deficit ormai conquistato che è stata usata nei mesi scorsi dal governo. E non basta la dichiarazione di Napoletano sul fatto che all’Italia non serva chiedere aiuto alla Bce – un po’ troppo da presidente del Consiglio per non essere impropria in bocca al Capo dello Stato, me lo consenta il presidente – per dirsi scongiurata quella necessità. Dunque, guai ad abbassare la guardia. Come ha giustamente ricordato Monti, c’è bisogno ancora di molte riforme radicali, non di politiche moderate o, peggio, di passi indietro.
Tuttavia, non è neppure esecrando l’appellativo di manovra a questi provvedimenti, non è facendo finta che siano a saldo zero se poi si scopre che l’indebitamento aumenta di un miliardo e mezzo nel 2013, non è evitando di procedere a riallocare la spesa o a cambiare la struttura del gettito in modo significativo, ma soprattutto non è lasciando lo specifico della legge di stabilità in balia del suk politico (della serie “fate quel che volete basta i saldi siano invariati”) che si esorcizzano le sciagurate pulsioni alla redistribuzione di ricchezza inesistente provenienti da chi avendo molte cose da farsi perdonare tenta disperatamente di recuperare consenso a buon mercato. Anche perché la Banca d’Italia ha già detto chiaramente che occorre mettere nel conto una nuova manovra in primavera (prima delle elezioni, per blindare le scelte successive).
La verità è che se dai partiti arrivano per lo più demagogiche indicazioni che rischiano di creare pericolose illusioni nel Paese, non è che dal governo vengano indicazioni di scelte politiche nette e coerenti. È segno d’intelligenza e duttilità di cui le va dato, che il ministro Fornero – a proposito, piena solidarietà per quel choosy: quando ci vuole, ci vuole – abbia deciso di rimettere mano alla riforma del mercato del lavoro nel tentativo di recuperare flessibilità in entrata troppo frettolosamente equiparata a precarietà. Ma è evidente che così il decisionismo, che dovrebbe essere la cifra di un governo privo di tentazioni elettorali, va a farsi benedire. E più le manovre proposte sono di respiro congiunturale – come inevitabilmente è quella che punta all’azzeramento del deficit invece che ad un taglio sostanziale del debito – e più si aprono spazi per il populismo e i ritorni al passato.
Francamente, dai paladini del vecchio bipolarismo, fallimentare, non mi aspetto nulla. Ma da questo governo sì. E c’è ancora tempo utile.
Infatti, è tutta una rincorsa a chi la spara più grossa nel raccontare che di sacrifici ne sono già stati fin troppi e che ora il tema è quello di restituire una parte del maltolto, considerando del tutto superata l’emergenza finanziaria che a novembre scorso, al suo apice, aveva portato Monti a palazzo Chigi. Una valutazione del tutto fuori dalla realtà, ma a sinistra viene usata sia per la presenza di Sel nella coalizione con il Pd – cementata in modo indissolubile dalle primarie all together – che spara cannonate contro “l’agenda Monti”, sia nel (disperato) tentativo di recuperare voti migranti verso Grillo. Mentre a destra, oltre al solito populismo, c’è una corrente di pensiero che tenta di dimostrare che quella dello spread non era (e tantomeno è ora) una pistola puntata alla nostra tempia, o meglio che con essa si poteva tranquillamente convivere, e che dunque i tagli e l’inasprimento fiscale voluti dal Professore non sono per nulla obbligatori. Leggermente più sofisticati quelli (pochi, a sinistra come a destra) che non negano la necessità del rigore, ma vorrebbero vederlo accompagnato da misure concrete per la crescita, anche se finiscono sempre per omettere di dire da dove si dovrebbero pescare le risorse (a parte le ricorrenti litanie su “spenniamo i ricchi”).
La verità, invece, è che l’emergenza non è affatto terminata – tanto per le condizioni di estrema debolezza dell’economia italiana, quanto per i nodi non sciolti nell’eurosistema – come dimostra sia il balzo in su del rapporto debito-pil, che ha varcato la soglia del 126%, sia la malcelata preoccupazione di Grilli (“il pareggio di bilancio è impresa difficile ma possibile”), che francamente fa a pugni con la retorica dell’azzeramento del deficit ormai conquistato che è stata usata nei mesi scorsi dal governo. E non basta la dichiarazione di Napoletano sul fatto che all’Italia non serva chiedere aiuto alla Bce – un po’ troppo da presidente del Consiglio per non essere impropria in bocca al Capo dello Stato, me lo consenta il presidente – per dirsi scongiurata quella necessità. Dunque, guai ad abbassare la guardia. Come ha giustamente ricordato Monti, c’è bisogno ancora di molte riforme radicali, non di politiche moderate o, peggio, di passi indietro.
Tuttavia, non è neppure esecrando l’appellativo di manovra a questi provvedimenti, non è facendo finta che siano a saldo zero se poi si scopre che l’indebitamento aumenta di un miliardo e mezzo nel 2013, non è evitando di procedere a riallocare la spesa o a cambiare la struttura del gettito in modo significativo, ma soprattutto non è lasciando lo specifico della legge di stabilità in balia del suk politico (della serie “fate quel che volete basta i saldi siano invariati”) che si esorcizzano le sciagurate pulsioni alla redistribuzione di ricchezza inesistente provenienti da chi avendo molte cose da farsi perdonare tenta disperatamente di recuperare consenso a buon mercato. Anche perché la Banca d’Italia ha già detto chiaramente che occorre mettere nel conto una nuova manovra in primavera (prima delle elezioni, per blindare le scelte successive).
La verità è che se dai partiti arrivano per lo più demagogiche indicazioni che rischiano di creare pericolose illusioni nel Paese, non è che dal governo vengano indicazioni di scelte politiche nette e coerenti. È segno d’intelligenza e duttilità di cui le va dato, che il ministro Fornero – a proposito, piena solidarietà per quel choosy: quando ci vuole, ci vuole – abbia deciso di rimettere mano alla riforma del mercato del lavoro nel tentativo di recuperare flessibilità in entrata troppo frettolosamente equiparata a precarietà. Ma è evidente che così il decisionismo, che dovrebbe essere la cifra di un governo privo di tentazioni elettorali, va a farsi benedire. E più le manovre proposte sono di respiro congiunturale – come inevitabilmente è quella che punta all’azzeramento del deficit invece che ad un taglio sostanziale del debito – e più si aprono spazi per il populismo e i ritorni al passato.
Francamente, dai paladini del vecchio bipolarismo, fallimentare, non mi aspetto nulla. Ma da questo governo sì. E c’è ancora tempo utile.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.