Turbolenze nel cielo della sinistra
Businness senza class
Matteo Colaninno, negando il suo conflitto d'interessi nell'affare Alitalia crea un problema politico al Pddi Davide Giacalone - 02 novembre 2013
E’ giusto che le colpe dei padri non ricadano sui figli (neanche i meriti, se è per questo, benché i posteri ne beneficino). Ed è giusto che sui padri non ricadano quelle dei figli (dei cui meriti, eventualmente, possono andare orgogliosi). Ma il problema di Roberto Colaninno (l’imprenditore) e Matteo Colaninno (il politico) è che siedono nel medesimo consiglio d’amministrazione e amministrano i medesimi beni di famiglia, sicché un eventuale dissidio fra di loro ci pone di fronte a un trivio: si tratterà di lite familiare, di dissenso politico o di divergenza imprenditoriale? Solo nel primo caso sono affari loro. Trattandosi di aerei, cerchiamo di non trovarci nel business senza class.
Fra i guai del capitalismo relazionale, di cui Roberto Colaninno è stato sontuoso interprete, c’è anche quello di rendere le aziende non contendibili e destinate alla deriva dinastica. Tale deriva è nociva quale che sia la dinastia, mentre da noi capita che a seconda del cognome si cambi la teoria e il (pre)giudizio. La sorte di Alitalia riguarda tutti, ma la divisione in casa Colaninno pone problemi alle società da loro amministrate, alla Borsa e al Partito democratico.
Il contendere è presto riassunto: Roberto, il padre, vide nel salvataggio di Alitalia un’occasione imprenditoriale, tanto più che il governo di allora (a mio avviso sbagliando) garantì la consegna della compagnia al netto dei debiti e l’esclusiva della tratta Roma-Milano, il padre, inoltre, assieme ad altri imprenditori, considerò praticabile e virtuosa l’incorporazione di AirOne, fortemente voluta da BancaIntesa (e anche questo, a mio avviso, fu un errore); Matteo, il figlio, sostiene che tutta la faccenda fu un pateracchio voluto da Silvio Berlusconi, inevitabilmente destinata al fallimento, e aggiunge che sarebbe stato bene vendere Alitalia ad AirFrance, come voleva Romano Prodi. Accantoniamo le questioni familiari, sia che comportino solidarietà o rivalità fra i due. Se la sbrighino a casa. Si pongono problemi politici e societari.
Il problema politico riguarda prevalentemente il Pd e la sinistra: sono sicuri di potere avere come responsabile economico chi è in affari con i soggetti sui quali si esprimono giudizi? E, posto che AirFrance è, in realtà, AirFrance-Klm, quindi due compagnie partecipate dal governo francese (16%) e da quello olandese (6%), sono sicuri di volere sponsorizzare una privatizzazione in Italia che equivale a una nazionalizzazione in Francia e Olanda? A scanso d’equivoci: credo che Alitalia vada lasciata al fallimento, oppure aiutata con un prestito ponte per essere consegnata (possibilmente con guadagno) a una nuova proprietà, in ogni caso credo che chi si è assunto il rischio di salvarla, supponendo di guadagnarci, oggi non possa chiedere protezioni ulteriori. Fatto è che il Pd, anche per la buona salute del governo presieduto dal suo vice segretario, dovrebbe avere una posizione non così lambita da conflitto d’interessi.
Poi c’è il problema societario. Matteo dice di non avere conflitti d’interesse, giacché non ha cariche esecutive e non siede nel consiglio Alitalia (ci mancherebbe pure questa!). Ma siede nel consiglio delle società che hanno investito, una delle quali è quotata in Borsa. La domanda è: nei verbali di queste società risulta che il consigliere figlio abbia manifestato la sua contrarietà, votando conseguentemente, sicché avvertendo gli altri amministratori dell’errore che stavano commettendo, dissociando le proprie responsabilità? Se sì, la cosa gli fa onore, perché ha avuto ragione. Se no, però, è venuto meno ai doveri del buon amministratore. Vuoi che lo abbia fatto per amore filiale o per convenienza personale.
Lasciamo perdere che oggi voglia dare tutte le colpe a Berlusconi, dimenticando quindi che contro la consegna ai francesi era anche il sindacato e gran parte della sinistra (tant’è che Prodi, se ne sarà accorto, non riuscì nell’operazione). Queste son polemicuzze. Sparate retoriche che si perdonano a tutti. Il punto è che quell’operazione non sarebbe stata possibile se non ci fossero stati imprenditori che rischiavano, e se, diciamola tutta, non ci fosse stato babbo a dimostrare che non era una cordata berlusconiana.
I moralismi mi danno l’orticaria, ma vedere che si prova a buttarla in caciara m’induce un certo mal d’aereo. Che normalmente non soffro.
Fra i guai del capitalismo relazionale, di cui Roberto Colaninno è stato sontuoso interprete, c’è anche quello di rendere le aziende non contendibili e destinate alla deriva dinastica. Tale deriva è nociva quale che sia la dinastia, mentre da noi capita che a seconda del cognome si cambi la teoria e il (pre)giudizio. La sorte di Alitalia riguarda tutti, ma la divisione in casa Colaninno pone problemi alle società da loro amministrate, alla Borsa e al Partito democratico.
Il contendere è presto riassunto: Roberto, il padre, vide nel salvataggio di Alitalia un’occasione imprenditoriale, tanto più che il governo di allora (a mio avviso sbagliando) garantì la consegna della compagnia al netto dei debiti e l’esclusiva della tratta Roma-Milano, il padre, inoltre, assieme ad altri imprenditori, considerò praticabile e virtuosa l’incorporazione di AirOne, fortemente voluta da BancaIntesa (e anche questo, a mio avviso, fu un errore); Matteo, il figlio, sostiene che tutta la faccenda fu un pateracchio voluto da Silvio Berlusconi, inevitabilmente destinata al fallimento, e aggiunge che sarebbe stato bene vendere Alitalia ad AirFrance, come voleva Romano Prodi. Accantoniamo le questioni familiari, sia che comportino solidarietà o rivalità fra i due. Se la sbrighino a casa. Si pongono problemi politici e societari.
Il problema politico riguarda prevalentemente il Pd e la sinistra: sono sicuri di potere avere come responsabile economico chi è in affari con i soggetti sui quali si esprimono giudizi? E, posto che AirFrance è, in realtà, AirFrance-Klm, quindi due compagnie partecipate dal governo francese (16%) e da quello olandese (6%), sono sicuri di volere sponsorizzare una privatizzazione in Italia che equivale a una nazionalizzazione in Francia e Olanda? A scanso d’equivoci: credo che Alitalia vada lasciata al fallimento, oppure aiutata con un prestito ponte per essere consegnata (possibilmente con guadagno) a una nuova proprietà, in ogni caso credo che chi si è assunto il rischio di salvarla, supponendo di guadagnarci, oggi non possa chiedere protezioni ulteriori. Fatto è che il Pd, anche per la buona salute del governo presieduto dal suo vice segretario, dovrebbe avere una posizione non così lambita da conflitto d’interessi.
Poi c’è il problema societario. Matteo dice di non avere conflitti d’interesse, giacché non ha cariche esecutive e non siede nel consiglio Alitalia (ci mancherebbe pure questa!). Ma siede nel consiglio delle società che hanno investito, una delle quali è quotata in Borsa. La domanda è: nei verbali di queste società risulta che il consigliere figlio abbia manifestato la sua contrarietà, votando conseguentemente, sicché avvertendo gli altri amministratori dell’errore che stavano commettendo, dissociando le proprie responsabilità? Se sì, la cosa gli fa onore, perché ha avuto ragione. Se no, però, è venuto meno ai doveri del buon amministratore. Vuoi che lo abbia fatto per amore filiale o per convenienza personale.
Lasciamo perdere che oggi voglia dare tutte le colpe a Berlusconi, dimenticando quindi che contro la consegna ai francesi era anche il sindacato e gran parte della sinistra (tant’è che Prodi, se ne sarà accorto, non riuscì nell’operazione). Queste son polemicuzze. Sparate retoriche che si perdonano a tutti. Il punto è che quell’operazione non sarebbe stata possibile se non ci fossero stati imprenditori che rischiavano, e se, diciamola tutta, non ci fosse stato babbo a dimostrare che non era una cordata berlusconiana.
I moralismi mi danno l’orticaria, ma vedere che si prova a buttarla in caciara m’induce un certo mal d’aereo. Che normalmente non soffro.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.