L'economia non va in ferie
Autunno gelido
Ecco le quattro questioni su cui si deciderà la sorte del Governo, una volta rientrati dalle vacanzedi Davide Giacalone - 17 luglio 2013
L’estate che stiamo vivendo somiglia molto all’estate di due anni fa, quando le tensioni dei mercati propiziarono un crollo autunnale. Difficile che i ludi kazaki si chiudano fra gli allori. Ma difficile anche che riescano a lungo a distrarre l’attenzione dalle difficoltà economiche. Che non accennano a prendersi una vacanza. E, a proposito di vacanze, quel che preoccupa veramente non è che un numero crescente di italiani non si trasferiranno altrove, rispetto all’abituale residenza, per le ferie, bensì che troppi non hanno mai avuto, non hanno o hanno perso un lavoro da cui andare in vacanza. L’autunno caldo (1969) fu possibile in un’Italia che cresceva e nella quale i sindacati facevano fatica nel reggere la pressione di lavoratori che volevano veder aumentare garanzie e salari. Quello scenario è oggi impossibile. Ma occhio ai pericoli dell’autunno gelido.
Non mi preoccupa che, secondo i dati Ocse, il 53% dei giovani sotto i 25 anni si trovi nell’area del “precariato”. Quel che veramente allarma è che la quota di giovani al lavoro è sempre più bassa, la disoccupazione ha superato la media europea (e ancora non sono venuti meno gli ammortizzatori sociali, che sono una mascheratura della disoccupazione), e che quelli al lavoro si trovano in un mercato in cui le regole premiano quanti hanno di più (i garantiti del posto a tempo pieno e indeterminato) rispetto a quanti sono maggiormente esposti alla concorrenza. Quel che chiamiamo “precariato” sarà, ed in gran parte già è, visto che supera la metà dei giovani, una condizione normale di vita e di lavoro, che risulta intollerabile non per l’incertezza del lavoro futuro, ma per la certezza della pressione fiscale e previdenziale presente. A fronte delle quali non ci sarà adeguata e corrispondente spesa pubblica e copertura pensionistica. Quella fascia, insomma, paga la crisi appena meno dei disoccupati, ma assai più degli altri occupati. Il che è profondamente ingiusto.
Nell’autunno caldo i dipendenti poterono reclamare dai padroni, trovandosi su due fronti teoricamente opposti. Molto teoricamente, visto che i sindacati avevano dalla loro parte un’organizzazione sconosciuta ai nati di recente: l’Intersind. Era la Confindustria delle partecipazioni statali, che giunse a concedere aumenti salariali del 16% in una botta sola, trascinando con sé anche la Confindustria dei privati. Oggi quella finzione non è riproducibile, sicché la faglia passa fra imprese e lavoratori esposti alla globalizzazione e imprese e lavoratori protetti dalla spesa pubblica. Anche questa, però, è una raffigurazione teorica, fin troppo ottimistica: perché è vero che l’interesse collettivo consiste nel favorire chi sa competere, senza mettergli sulle spalle il costo di chi si fa trascinare, ma è anche vero che i protetti dalla spesa pubblica hanno smesso d’incassare, perché lo Stato dispensatore non paga. Ed ecco il paradosso: nel mentre chiediamo che si renda agevole l’intrapresa rivolta a mercati esterni dobbiamo anche reclamare che la pubblica amministrazione saldi i propri debiti, perché altrimenti i fallimenti cresceranno ancora, fino a divenire una frana incontenibile.
Si può? Sì, ma a patto di fare scelte precise: a. usare Cassa depositi e prestiti per offrire garanzia bancaria e liquidare immediatamente l’intero ammontare di quei debiti, senza rischio per le casse pubbliche, visto che lo Stato si troverebbe a dovere ripagare sé stesso; b. tagliare la spesa corrente improduttiva, quindi comunicare che senza convenienza e risparmi per le amministrazioni pubbliche nessuno vende più uno spillo; c. compensare la spesa calante con le calanti pretese fiscali, così aiutando chi è competitivo; d. evitare, con le dismissioni di patrimonio pubblico e l’abbattimento del debito, che il calo del gettito fiscale porti a un aumento della spesa pubblica per il tramite di più alti interessi sul debito.
Su queste quattro partite si giudica e decide la sorte del governo, non sulle gnagnere politiciste o sulle polemiche estive.
Non mi preoccupa che, secondo i dati Ocse, il 53% dei giovani sotto i 25 anni si trovi nell’area del “precariato”. Quel che veramente allarma è che la quota di giovani al lavoro è sempre più bassa, la disoccupazione ha superato la media europea (e ancora non sono venuti meno gli ammortizzatori sociali, che sono una mascheratura della disoccupazione), e che quelli al lavoro si trovano in un mercato in cui le regole premiano quanti hanno di più (i garantiti del posto a tempo pieno e indeterminato) rispetto a quanti sono maggiormente esposti alla concorrenza. Quel che chiamiamo “precariato” sarà, ed in gran parte già è, visto che supera la metà dei giovani, una condizione normale di vita e di lavoro, che risulta intollerabile non per l’incertezza del lavoro futuro, ma per la certezza della pressione fiscale e previdenziale presente. A fronte delle quali non ci sarà adeguata e corrispondente spesa pubblica e copertura pensionistica. Quella fascia, insomma, paga la crisi appena meno dei disoccupati, ma assai più degli altri occupati. Il che è profondamente ingiusto.
Nell’autunno caldo i dipendenti poterono reclamare dai padroni, trovandosi su due fronti teoricamente opposti. Molto teoricamente, visto che i sindacati avevano dalla loro parte un’organizzazione sconosciuta ai nati di recente: l’Intersind. Era la Confindustria delle partecipazioni statali, che giunse a concedere aumenti salariali del 16% in una botta sola, trascinando con sé anche la Confindustria dei privati. Oggi quella finzione non è riproducibile, sicché la faglia passa fra imprese e lavoratori esposti alla globalizzazione e imprese e lavoratori protetti dalla spesa pubblica. Anche questa, però, è una raffigurazione teorica, fin troppo ottimistica: perché è vero che l’interesse collettivo consiste nel favorire chi sa competere, senza mettergli sulle spalle il costo di chi si fa trascinare, ma è anche vero che i protetti dalla spesa pubblica hanno smesso d’incassare, perché lo Stato dispensatore non paga. Ed ecco il paradosso: nel mentre chiediamo che si renda agevole l’intrapresa rivolta a mercati esterni dobbiamo anche reclamare che la pubblica amministrazione saldi i propri debiti, perché altrimenti i fallimenti cresceranno ancora, fino a divenire una frana incontenibile.
Si può? Sì, ma a patto di fare scelte precise: a. usare Cassa depositi e prestiti per offrire garanzia bancaria e liquidare immediatamente l’intero ammontare di quei debiti, senza rischio per le casse pubbliche, visto che lo Stato si troverebbe a dovere ripagare sé stesso; b. tagliare la spesa corrente improduttiva, quindi comunicare che senza convenienza e risparmi per le amministrazioni pubbliche nessuno vende più uno spillo; c. compensare la spesa calante con le calanti pretese fiscali, così aiutando chi è competitivo; d. evitare, con le dismissioni di patrimonio pubblico e l’abbattimento del debito, che il calo del gettito fiscale porti a un aumento della spesa pubblica per il tramite di più alti interessi sul debito.
Su queste quattro partite si giudica e decide la sorte del governo, non sulle gnagnere politiciste o sulle polemiche estive.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.