Oltre la crisi
Asfissia produttiva
Serve uno Stato che sia non avversario, ma partner dei coraggiosi e talentuosi. L'Italia degli Innovatori è pronta a ripartiredi Davide Giacalone - 04 febbraio 2014
Negli ultimi cinque anni più di 8.000 aziende manifatturiere italiane sono uscite dal mercato. Sono morte. E’ il bello della selezione o il brutto della recessione? L’Italia, vista da fuori, esiste ancora perché è la seconda potenza industriale d’Europa. Se perdiamo questa posizione diventiamo un Paese di camerieri e albergatori, a libro paga di catene non italiane (il turismo è gran bella cosa, essere serventi senza profitto patrio è cosa pessima). Non ho mai smesso, con pochi altri, di ricordare i punti di forza dell’Italia, ivi compresa la capacità di una parte del nostro sistema produttivo non solo di competere, ma di vincere nei mercati globalizzati. Non condivido né la rassegnazione né la retorica del declino. Ma è pericoloso non vedere che pezzi rilevanti del nostro sistema produttivo stanno scivolando verso la fine.
Discutere delle scelte di Fiat, come si è fatto, con toni recriminanti e incriminanti verso Sergio Marchionne, non ha senso. Ma neanche lo ha far finta di non vedere che la produzione di auto sposta il suo baricentro, indebolendo micidialmente sia l’indotto che la ricerca, in Italia. La Nissan, nel sud d’Inghilterra, ha una fabbrica che produce, ogni anno, più vetture che in tutta Italia. E siamo abituati a dire che l’industria inglese è stata rasa al suolo. Il settore del bianco, lavatrici, lavastoviglie e frigoriferi, fu d’eccellenza e dominanza tedesca e italiana. Della vicenda Electrolux ci siamo già occupati: il punto non è cosa decide una direzione aziendale, ma fare i conti con la costante fuga dall’Italia, quale zona produttiva. L’attenzione, comprensibilmente, si concentra sui gruppi grossi e sui nomi noti. Ma il problema vero è quell’humus imprenditoriale e produttivo, fatto di imprenditori-lavoratori e di lavoratori-imprenditori, che oramai è costretto a puntare solo sulla domanda esterna, dando per moribonda quella interna. Questo li spinge a non investire in Italia, o a vendere i brevetti e cercare di monetizzare il passato. Intendiamoci: il pulviscolo imprenditoriale non è un bene in sé, lo diviene se chi indovina l’idea e il prodotto è poi intenzionato e nelle condizioni per crescere. Da noi, invece, si passa dal “piccolo è bello” a “poco male se crepa il piccolo”. Due errori opposti e convergenti. Se non rimediamo ci ritroveremo totalmente marginalizzati.
Le crisi hanno aspetti positivi. Il darwinismo capitalista suggerisce che nelle difficoltà si selezionano i migliori, talché il corpo produttivo che sopravviverà alla crisi sarà più forte e sano. Ma qui si rischia che accada il contrario: è la parte più relazionata e protetta, la più dipendente dalla spesa pubblica e la più capace di ricattare le banche (toglietemi i fidi, fallisco e voi perdete il denaro) che si candida a sopravvivere. Non sarà sopravvivenza lunga, ma supererà l’orizzonte temporale di chi ancora strappa i guadagni battendosi in mercati veri e concorrenziali. Questi ultimi, proiettati sempre più all’estero, tendono a subirne l’attrazione gravitazionale. Certo, l’Italia è ancora un forziere di competenze e volontà, ma sempre di più si possono trovare anche altrove. Con una differenza: ci sono ecosistemi favorevoli all’intrapresa e ad essa avversi. Il nostro è nella seconda categoria.
Tutto questo capita (come s’è avuta riconferma nel corso dell’orrida vicenda della Banca d’Italia) perché l’economia assistita, burocratizzata e politicizzata non solo pesa, per via fiscale, sul sistema veramente produttivo, ma ha anche acquisito il quasi monopolio della rappresentanza. Quel che non va a eleggere classe dirigente figlia dello statalismo e nemica del mercati, va ad eleggere truppe di scalmanati antistatali e ancor più nemici del mercato. Gli italiani produttivi, imprenditori e lavoratori esposti alla competizione, sono sempre di più stranieri in Patria. I loro profitti (se ci sono) e i loro salari possono essere compressi, mentre quelli di chi campa al riparo della concorrenza sono considerati intoccabili. Ciò innescherà una micidiale guerra fra assistiti e abbandonati, che sarà condotta nel consueto pantano del moralismo e dell’ideologismo, senza rendersi conto che anche gli assistiti cesseranno presto d’essere tali, se i produttivi resteranno abbandonati.
La via d’uscita c’è. Anche in un’era che offre manodopera a bassissimo costo, c’è spazio per manifatture innovative e di qualità. La crescita della ricchezza, in quegli stessi mercati che ci fanno concorrenza (vedi la Cina), è a sua volta occasione di nostra riscossa produttiva. Ma questo comporta non solo tagliare la spesa pubblica, ridurre lo Stato e alleggerire il fisco, bensì anche usare uno Stato più snello per aiutare i piccoli nelle sfide della globalizzazione (l’Expo 2015 è un’occasione, non sprechiamola). Serve uno Stato che sia non avversario, ma partner dei coraggiosi e talentuosi. Bastò poco, con Italia degli Innovatori, spendendo spiccioli, per portare a casa molto. Qui ne parlammo. Quella è la strada. L’altra è in discesa, sì, ma verso la rovina.
Discutere delle scelte di Fiat, come si è fatto, con toni recriminanti e incriminanti verso Sergio Marchionne, non ha senso. Ma neanche lo ha far finta di non vedere che la produzione di auto sposta il suo baricentro, indebolendo micidialmente sia l’indotto che la ricerca, in Italia. La Nissan, nel sud d’Inghilterra, ha una fabbrica che produce, ogni anno, più vetture che in tutta Italia. E siamo abituati a dire che l’industria inglese è stata rasa al suolo. Il settore del bianco, lavatrici, lavastoviglie e frigoriferi, fu d’eccellenza e dominanza tedesca e italiana. Della vicenda Electrolux ci siamo già occupati: il punto non è cosa decide una direzione aziendale, ma fare i conti con la costante fuga dall’Italia, quale zona produttiva. L’attenzione, comprensibilmente, si concentra sui gruppi grossi e sui nomi noti. Ma il problema vero è quell’humus imprenditoriale e produttivo, fatto di imprenditori-lavoratori e di lavoratori-imprenditori, che oramai è costretto a puntare solo sulla domanda esterna, dando per moribonda quella interna. Questo li spinge a non investire in Italia, o a vendere i brevetti e cercare di monetizzare il passato. Intendiamoci: il pulviscolo imprenditoriale non è un bene in sé, lo diviene se chi indovina l’idea e il prodotto è poi intenzionato e nelle condizioni per crescere. Da noi, invece, si passa dal “piccolo è bello” a “poco male se crepa il piccolo”. Due errori opposti e convergenti. Se non rimediamo ci ritroveremo totalmente marginalizzati.
Le crisi hanno aspetti positivi. Il darwinismo capitalista suggerisce che nelle difficoltà si selezionano i migliori, talché il corpo produttivo che sopravviverà alla crisi sarà più forte e sano. Ma qui si rischia che accada il contrario: è la parte più relazionata e protetta, la più dipendente dalla spesa pubblica e la più capace di ricattare le banche (toglietemi i fidi, fallisco e voi perdete il denaro) che si candida a sopravvivere. Non sarà sopravvivenza lunga, ma supererà l’orizzonte temporale di chi ancora strappa i guadagni battendosi in mercati veri e concorrenziali. Questi ultimi, proiettati sempre più all’estero, tendono a subirne l’attrazione gravitazionale. Certo, l’Italia è ancora un forziere di competenze e volontà, ma sempre di più si possono trovare anche altrove. Con una differenza: ci sono ecosistemi favorevoli all’intrapresa e ad essa avversi. Il nostro è nella seconda categoria.
Tutto questo capita (come s’è avuta riconferma nel corso dell’orrida vicenda della Banca d’Italia) perché l’economia assistita, burocratizzata e politicizzata non solo pesa, per via fiscale, sul sistema veramente produttivo, ma ha anche acquisito il quasi monopolio della rappresentanza. Quel che non va a eleggere classe dirigente figlia dello statalismo e nemica del mercati, va ad eleggere truppe di scalmanati antistatali e ancor più nemici del mercato. Gli italiani produttivi, imprenditori e lavoratori esposti alla competizione, sono sempre di più stranieri in Patria. I loro profitti (se ci sono) e i loro salari possono essere compressi, mentre quelli di chi campa al riparo della concorrenza sono considerati intoccabili. Ciò innescherà una micidiale guerra fra assistiti e abbandonati, che sarà condotta nel consueto pantano del moralismo e dell’ideologismo, senza rendersi conto che anche gli assistiti cesseranno presto d’essere tali, se i produttivi resteranno abbandonati.
La via d’uscita c’è. Anche in un’era che offre manodopera a bassissimo costo, c’è spazio per manifatture innovative e di qualità. La crescita della ricchezza, in quegli stessi mercati che ci fanno concorrenza (vedi la Cina), è a sua volta occasione di nostra riscossa produttiva. Ma questo comporta non solo tagliare la spesa pubblica, ridurre lo Stato e alleggerire il fisco, bensì anche usare uno Stato più snello per aiutare i piccoli nelle sfide della globalizzazione (l’Expo 2015 è un’occasione, non sprechiamola). Serve uno Stato che sia non avversario, ma partner dei coraggiosi e talentuosi. Bastò poco, con Italia degli Innovatori, spendendo spiccioli, per portare a casa molto. Qui ne parlammo. Quella è la strada. L’altra è in discesa, sì, ma verso la rovina.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.