Le sfide cui è chiamata a far fronte l’Italia
Arrestare il declino si può. Si deve
Aumento della produttività e dei salari, la via percorribile per fermare la crisidi Enrico Cisnetto - 18 gennaio 2008
A proposito del contratto dei metalmeccanici, il Foglio ha avanzato l’idea che il clamoroso fallimento della trattative sia attribuibile alla premeditazioni di chi, nel sindacato come nella Confindustria, intenderebbe rendere esplicita una volta per tutte la consunzione del vecchio modello contrattuale centralista. Magari. Se così fosse, vorrebbe dire che c’è in giro ancora qualcuno che ragiona. Ma temo che così non sia, e che il motivo di questo spettacolo poco decoroso stia proprio, al contrario, nell’incapacità dimostrata dagli imprenditori e dalle componenti riformiste del sindacato (Cisl e Uil) di far precedere la stagione dei rinnovi da un accordo – anche senza la Cgil – sulla trasformazione in senso aziendale e individuale del sistema contrattuale, e nello stesso tempo di non aver saputo pretendere dal governo che la Finanziaria 2008 fosse caratterizzata da un provvedimento robusto sull’abbassamento della fiscalità su salari e stipendi, naturalmente non a pioggia ma ancorato ad aumenti di produttività. Temi, questi, che non avranno certo spazio ora che la vertenza è caratterizzata dagli ultimatum, dalla discesa in campo del ministro del Lavoro e dai soliti, ma non più tollerabili, blocchi stradali (a proposito, i prossimi rinnovi discuteteli direttamente negli autogrill). Di sicuro, in questo contesto, prevarrà chi nella Federmeccanica pensa che una conflittualità sui costi – ormai antistorica – sia vincente, così come nel sindacato avranno la meglio coloro non sono disposti a dire ai loro rappresentati che bisogna distinguere tra chi lavora bene e chi male, tra chi produce di più e chi di meno. Anche perchè, per restare allo specifico del settore, la realtà della meccanica italiana è oggi quanto mai frastagliata, comprendendo una “minoranza trainante” – per dirla alla De Rita – di imprese all’avanguardia della tecnica, che hanno imparato a proprie spese come stare sul mercato globale e che potrebbero dare molto di più ai lavoratori se non fossero zavorrate da una maggioranza di aziende old style, se non addirittura decotte, che non possono permettersi di concedere nemmeno un euro in più.
Ma, al netto della modestia strategica delle italiche parti sociali, la “questione salariale” esiste, e da molto prima che venisse certificata dalle statistiche, che vedono le nostre remunerazioni agli ultimi posti in Europa, falcidiate da un’inflazione che ha colpito in particolar modo i beni di consumo essenziali (e senza succedanei), e da un fiscal drag la cui restituzione è rimasta tra le promesse mai mantenute. E il problema non riguarda tanto, o soltanto, le fasce di reddito più basse, ma quelle aree di popolazione – numericamente crescenti, anche se per fortuna ancora circoscritte – che non hanno la fortuna di poter affiancare ai guadagni da lavoro dipendente (ma anche taluni da lavoro autonomo) elementi significativi di patrimonio e di risparmio familiare, vuoi perchè non ci sono mai stati, vuoi perchè in questi anni di vacche magre sono stati parzialmente o totalmente erosi. Da questo punto di vista, i dati forniti ieri dall’Istat – il 50% delle famiglie vive con 1900 euro al mese, il 15% non arriva a fine mese – risultano fuorvianti, proprio perchè sono costruiti solo sui redditi, e non sulla loro somma con quella ciambellona di salvataggio degli italiani che è il patrimonio accumulato.
Ma ciò non toglie che il Paese abbia due grandi questioni da risolvere, che poi a ben vedere sono le facce di una stessa medaglia: il pil da far tornare a crescere al pari degli altri – negli ultimi undici la differenza con la media Ue è stata costantemente di 8 decimi di punto l’anno, per un gap totale del 10% di ricchezza prodotta in meno – e i redditi individuali e/o famigliari da adeguare, sia in relazione alla loro effettiva produttività, sia in relazione alle diseguaglianze venutesi a creare sul fronte dei patrimoni. E se tanto la politica quanto le parti sociali non sono capaci di affrontare la complessità e l’intreccio di queste questioni, il risultato sarà l’inesorabile prosecuzione del declino.
Purtroppo, finora, l’esperienza ci insegna che questo sistema politico non è in grado di aggredire le ragioni strutturali della nostra crescita più bassa rispetto a quella dei competitor, e per mettere “benzina nel motore” è solo capace di fare operazioni una tantum effettuate con risorse provenienti dalle pieghe del bilancio, cioè senza toccare le grandi voci della spesa pubblica, che generano risorse distribuite su una platea vastissima e indistinta. Scelte, queste ultime, che non solo non sono servite né a generare investimenti (quando erano a favore delle imprese) né consumi (quando sono andate alle persone fisiche), cioè non hanno innescato un circolo economico virtuoso, ma paradossalmente neppure hanno creato consenso politico. Non solo: distribuendo soldi in un periodo di inflazione crescente si rischia soltanto di innescare di nuovo la spirale prezzi-salari già conosciuta negli anni ’80, e di avvantaggiare, in assenza di shock produttivi, soltanto l’import. Tecnicamente, un suicidio economico.
Invece, bisogna avere il coraggio di porre il problema della selettività: dal lato delle imprese, aiutare solo chi è in grado di competere, per le innovazioni che ha fatto, sui mercati globali; dal lato dei lavoratori, legare gli aumenti salariali – che derivino dai contratti o da sgravi fiscali – solo e soltanto all’incremento della produttività. Finanziando il tutto con quella profonda revisione della spesa pubblica che vada finalmente a toccare le nostre storture, dal sistema previdenziale agli assetti istituzionali.
Ma, al netto della modestia strategica delle italiche parti sociali, la “questione salariale” esiste, e da molto prima che venisse certificata dalle statistiche, che vedono le nostre remunerazioni agli ultimi posti in Europa, falcidiate da un’inflazione che ha colpito in particolar modo i beni di consumo essenziali (e senza succedanei), e da un fiscal drag la cui restituzione è rimasta tra le promesse mai mantenute. E il problema non riguarda tanto, o soltanto, le fasce di reddito più basse, ma quelle aree di popolazione – numericamente crescenti, anche se per fortuna ancora circoscritte – che non hanno la fortuna di poter affiancare ai guadagni da lavoro dipendente (ma anche taluni da lavoro autonomo) elementi significativi di patrimonio e di risparmio familiare, vuoi perchè non ci sono mai stati, vuoi perchè in questi anni di vacche magre sono stati parzialmente o totalmente erosi. Da questo punto di vista, i dati forniti ieri dall’Istat – il 50% delle famiglie vive con 1900 euro al mese, il 15% non arriva a fine mese – risultano fuorvianti, proprio perchè sono costruiti solo sui redditi, e non sulla loro somma con quella ciambellona di salvataggio degli italiani che è il patrimonio accumulato.
Ma ciò non toglie che il Paese abbia due grandi questioni da risolvere, che poi a ben vedere sono le facce di una stessa medaglia: il pil da far tornare a crescere al pari degli altri – negli ultimi undici la differenza con la media Ue è stata costantemente di 8 decimi di punto l’anno, per un gap totale del 10% di ricchezza prodotta in meno – e i redditi individuali e/o famigliari da adeguare, sia in relazione alla loro effettiva produttività, sia in relazione alle diseguaglianze venutesi a creare sul fronte dei patrimoni. E se tanto la politica quanto le parti sociali non sono capaci di affrontare la complessità e l’intreccio di queste questioni, il risultato sarà l’inesorabile prosecuzione del declino.
Purtroppo, finora, l’esperienza ci insegna che questo sistema politico non è in grado di aggredire le ragioni strutturali della nostra crescita più bassa rispetto a quella dei competitor, e per mettere “benzina nel motore” è solo capace di fare operazioni una tantum effettuate con risorse provenienti dalle pieghe del bilancio, cioè senza toccare le grandi voci della spesa pubblica, che generano risorse distribuite su una platea vastissima e indistinta. Scelte, queste ultime, che non solo non sono servite né a generare investimenti (quando erano a favore delle imprese) né consumi (quando sono andate alle persone fisiche), cioè non hanno innescato un circolo economico virtuoso, ma paradossalmente neppure hanno creato consenso politico. Non solo: distribuendo soldi in un periodo di inflazione crescente si rischia soltanto di innescare di nuovo la spirale prezzi-salari già conosciuta negli anni ’80, e di avvantaggiare, in assenza di shock produttivi, soltanto l’import. Tecnicamente, un suicidio economico.
Invece, bisogna avere il coraggio di porre il problema della selettività: dal lato delle imprese, aiutare solo chi è in grado di competere, per le innovazioni che ha fatto, sui mercati globali; dal lato dei lavoratori, legare gli aumenti salariali – che derivino dai contratti o da sgravi fiscali – solo e soltanto all’incremento della produttività. Finanziando il tutto con quella profonda revisione della spesa pubblica che vada finalmente a toccare le nostre storture, dal sistema previdenziale agli assetti istituzionali.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.