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Alibi

Anche le imprese devono fare autocritica

Capisco che sia più facile, e comodo, tirare in ballo il “sistema-paese” deficitario, ma attenti agli alibi. Consolano, ma fanno male alla salute.

di Enrico Cisnetto - 10 giugno 2012

La fabbrica degli alibi lavora a pieno regime. Ed è il più grave pericolo che incombe su di noi, perché assumendo pretesti giustificativi non prenderemo mai le decisioni necessarie, che spettano a noi e solo a noi. Il primo alibi che ci stiamo costruendo consiste nel dare tutte le colpe della crisi ai “cattivi” che stanno oltre confine. Prima della lista è la signora Merkel, cui mancano soltanto i manifesti murali con scritto wanted e poi è oggetto di tutti gli strali possibili e immaginabili. Sia chiaro, come ho scritto più volte in questa rubrica, ci sono molte frecce all’arco di chi critica il governo di Berlino, a cominciare dal fatto che l’anelasticità che lo contraddistingue alla fine rischia di rivelarsi autolesionistica. Così come, onestamente, ci sono però anche motivi di comprensione della diffidenza tedesca, visto che la Grecia ha spudoratamente truccato i conti pubblici per anni, la Spagna ha costruito un sistema bancario molto più fragile delle apparenze e l’Italia ha vissuto ben al di sopra delle possibilità reali. In tutti i casi, anche a voler considerare la rigidità tedesca l’origine di tutti i mali dell’Europa, e dunque dell’Italia, prendere la Merkel a scusante dei nostri ritardi e delle nostre inadempienze, non solo è scorretto – e certo non aumenta la nostra già scarsa credibilità internazionale – ma è il modo più sicuro per perpetuare l’immobilismo. Stessa cosa sta succedendo con Obama: “cosa vuole quello lì che critica l’Europa mentre sono gli Usa l’origine e la causa di questa maledetta crisi mondiale”. Anche qui, è fondata tanto la rampogna della Casa Bianca quanto quella nei confronti delle responsabilità americane. E invece, altro alibi altro immobilismo. Ma se questo giochetto scarica responsabilità avviene a livello di media, opinione pubblica e politica, un’analoga corsa al pretesto vedo negli imprenditori. Dal lungo elenco di accuse contenuto nella relazione di esordio di Squinzi in Confindustria, cui non ha corrisposto alcun esame autocritico della condizione del capitalismo nostrano, alle lamentele che si possono ascoltare in privato, di solito sorrette da una buona dose di moralismo, si coglie netta la voglia di trovare dei capri espiatori cui dare la colpa delle difficoltà in cui le imprese versano. Ora, è evidente che ci sono molti motivi per essere arrabbiati e depressi, dalla pressione fiscale insopportabile alle irritanti lungaggini burocratiche, per non parlare della più generale incapacità del sistema politico-istituzionale di dare risposte al problemi del presente e disegnare un progetto per il futuro. E che in queste condizioni fare investimenti, anche solo che mentali, è arduo. Tuttavia scorgo il pericolo del “giustificazionismo”. Perché ci sono molte cose che gli imprenditori potrebbero (e dovrebbero) fare che dipendono solo da loro, ma che risultano frenate da quell’eccesso di individualismo che da sempre li contraddistingue. E che costringe le imprese a non crescere perché non si sfruttano le potenziali sinergie (aggregazione societarie, ma anche consorzi per l’internazionalizzazione, integrazioni logistiche, innovazioni da convergenza di domini tecnico-scientifici diversi). Capisco che sia più facile, e comodo, tirare in ballo il “sistema-paese” deficitario (a dir poco), ma attenti agli alibi. Consolano, ma fanno male alla salute.

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