Jobs act e volontà politica
Al lavoro per il lavoro
Competenza tecnica e gran coraggio politico: ecco cosa serve per metter mano ad una seria riforma del lavorodi Enrico Cisnetto - 24 gennaio 2014
Nulla è più politico che stabilire le regole che influiscono sul rapporto tra capitale e lavoro, tra chi è padrone e chi non lo è, come direbbe qualcuno. E bene ha fatto Matteo Renzi a metterlo al centro della sua azione politica. Infatti, in tanti anni, il tema del mercato del lavoro e delle sue (im)possibili modifiche è stato vittima di faziose estremizzazioni ideologiche su molte questioni, anche marginali, che hanno prodotto un paralizzante immobilismo, come per esempio quello che è avvenuto sull’articolo 18.
E nessuno come i giuslavoristi ha subito i colpi di coda del terrorismo barbaro e miope, come dimostrano gli assassini di Marco Biagi e di Massimo D’Antona. Ma è proprio dai “professionisti” – da Pietro Ichino a Tito Boeri – che sono arrivate le migliori e più approfondite analisi sul tema, con l’elaborazione di riforme immediatamente applicabili. Ciò che è mancata, invece, è la volontà politica. Dunque, i “tecnici” (categoria che pure non amo) non hanno fatto “il Titanic”, come dice Renzi esaltando per contrapposizione i dilettanti. Piuttosto è stato altro a farci ballare sul Titanic: l’immobilismo e la vacuità della politica – che ha impedito le grandi riforme, ma non la stratificazione di norme complesse e confuse – un sistema formativo senza nessuna sintonia con le imprese (solo in Italia ci sono 65 mila posizioni vacanti fra gli under 35 per assenza di profili adeguati), la politicizzazione di una parte del sindacato e, last but not least, la più grave recessione della storia della Repubblica non curata per tempo. È stato tutto questo, di concerto, a produrre, cioè, una crescente mancanza di lavoro e un sistema che sta andando a fondo, con la disoccupazione giovanile oltre il 40%, quella totale al 12,3%, raddoppiata rispetto al 2006 e stimata in crescita nei prossimi anni, senza dimenticare i quasi 3 milioni di precari e altre 4 milioni di presone “scoraggiate”, che non studiano, non lavorano, ne cercano di fare alcunché.
Matteo Renzi, fra le sue tante accelerazioni, sul tema ha presentato il “JobActs”, dimenticando però la promessa espressa durante le primarie di utilizzare il “Codice semplificato del lavoro” redatto da Ichino con simulazioni e analisi talmente discusse che lo studio oggi può definirsi “chiavi in mano”. Il neo segretario del Pd ha invertito la rotta, affermando di voler presentare (e non approvare) entro settembre il “Codice semplificato”, chiedendo quindi 8 mesi invece dei 3 stimati inizialmente. Una dilazione che può derivare da diversi fattori: dal desiderio del leader del Pd di non usare tutte le cartucce a sua disposizione con Letta a Palazzo Chigi, alla necessità di spingere su proposte di forte impatto mediatico, come spostare la tassazione dal lavoro alle rendite finanziarie e diminuire del 10% il costo dell’energia per le piccole e medie imprese. Ma sia come sia, il nodo centrale della questione è che sul “JobsAct” il punto non è tecnico, ma politico. La questione non è se, come dice il sindaco di Firenze, “i dilettanti faranno l’Arca di Noè”, quanto piuttosto capire se il piano per il lavoro serva a produrre qualcosa di concreto che manca da troppo tempo. Perché ci vuole davvero grande coraggio politico per una seria riforma del lavoro. Bisogna andare a dire ai lavoratori ipertutelati che non possono campare a spese dei giovani precari, che le tutele si devono prevedere per l’individuo ma non per il posto di lavoro.
Bisogna spiegare ai cassaintegrati, che aspettano anni (magari nel frattempo lavorando in nero) una miracolosa rinascita della loro azienda, che debbono fare corsi di aggiornamento e reinventarsi. Bisogna sostenere chiaramente la necessità di una redistribuzione più equa degli ammortizzatori sociali, tirando una riga sopra a privilegi che si ritenevano acquisiti. E bisogna spingere sulla contrattazione aziendale e decentrata, indebolendo il potere contrattuale dei sindacati confederali. Ma, soprattutto, il neosegretario democratico dovrà avere la forza necessaria di staccarsi dalla Cgil, il più grande stopper delle riforme relative al lavoro (mentre le aperture, seppur tattiche, a Landini fanno temere…), e inserire le sue proposte dentro la cornice di una nuova e coraggiosa politica economica, capace di superare le arretratezze e le pigrizie della sinistra e le incongruenze della destra.
Le regole del mercato del lavoro – che da sole non bastano a battere la recessione, ma aiutano – fanno parte integrante della politica economica del Paese (ah, se ne avessimo una…) e l’improduttività sul tema, figlia del bipolarismo paralizzante della Seconda Repubblica, non si può certo sciogliere con l’incompetenza dei “dilettanti”. Male, quindi, se con il “JobActs” si ignorano tutti i competenti suggerimenti dei “professionisti”, finora disattesi dalla cattiva politica. Bene, invece, se servisse a raccogliere il consenso necessario a dare benzina al motore della volontà politica.
E nessuno come i giuslavoristi ha subito i colpi di coda del terrorismo barbaro e miope, come dimostrano gli assassini di Marco Biagi e di Massimo D’Antona. Ma è proprio dai “professionisti” – da Pietro Ichino a Tito Boeri – che sono arrivate le migliori e più approfondite analisi sul tema, con l’elaborazione di riforme immediatamente applicabili. Ciò che è mancata, invece, è la volontà politica. Dunque, i “tecnici” (categoria che pure non amo) non hanno fatto “il Titanic”, come dice Renzi esaltando per contrapposizione i dilettanti. Piuttosto è stato altro a farci ballare sul Titanic: l’immobilismo e la vacuità della politica – che ha impedito le grandi riforme, ma non la stratificazione di norme complesse e confuse – un sistema formativo senza nessuna sintonia con le imprese (solo in Italia ci sono 65 mila posizioni vacanti fra gli under 35 per assenza di profili adeguati), la politicizzazione di una parte del sindacato e, last but not least, la più grave recessione della storia della Repubblica non curata per tempo. È stato tutto questo, di concerto, a produrre, cioè, una crescente mancanza di lavoro e un sistema che sta andando a fondo, con la disoccupazione giovanile oltre il 40%, quella totale al 12,3%, raddoppiata rispetto al 2006 e stimata in crescita nei prossimi anni, senza dimenticare i quasi 3 milioni di precari e altre 4 milioni di presone “scoraggiate”, che non studiano, non lavorano, ne cercano di fare alcunché.
Matteo Renzi, fra le sue tante accelerazioni, sul tema ha presentato il “JobActs”, dimenticando però la promessa espressa durante le primarie di utilizzare il “Codice semplificato del lavoro” redatto da Ichino con simulazioni e analisi talmente discusse che lo studio oggi può definirsi “chiavi in mano”. Il neo segretario del Pd ha invertito la rotta, affermando di voler presentare (e non approvare) entro settembre il “Codice semplificato”, chiedendo quindi 8 mesi invece dei 3 stimati inizialmente. Una dilazione che può derivare da diversi fattori: dal desiderio del leader del Pd di non usare tutte le cartucce a sua disposizione con Letta a Palazzo Chigi, alla necessità di spingere su proposte di forte impatto mediatico, come spostare la tassazione dal lavoro alle rendite finanziarie e diminuire del 10% il costo dell’energia per le piccole e medie imprese. Ma sia come sia, il nodo centrale della questione è che sul “JobsAct” il punto non è tecnico, ma politico. La questione non è se, come dice il sindaco di Firenze, “i dilettanti faranno l’Arca di Noè”, quanto piuttosto capire se il piano per il lavoro serva a produrre qualcosa di concreto che manca da troppo tempo. Perché ci vuole davvero grande coraggio politico per una seria riforma del lavoro. Bisogna andare a dire ai lavoratori ipertutelati che non possono campare a spese dei giovani precari, che le tutele si devono prevedere per l’individuo ma non per il posto di lavoro.
Bisogna spiegare ai cassaintegrati, che aspettano anni (magari nel frattempo lavorando in nero) una miracolosa rinascita della loro azienda, che debbono fare corsi di aggiornamento e reinventarsi. Bisogna sostenere chiaramente la necessità di una redistribuzione più equa degli ammortizzatori sociali, tirando una riga sopra a privilegi che si ritenevano acquisiti. E bisogna spingere sulla contrattazione aziendale e decentrata, indebolendo il potere contrattuale dei sindacati confederali. Ma, soprattutto, il neosegretario democratico dovrà avere la forza necessaria di staccarsi dalla Cgil, il più grande stopper delle riforme relative al lavoro (mentre le aperture, seppur tattiche, a Landini fanno temere…), e inserire le sue proposte dentro la cornice di una nuova e coraggiosa politica economica, capace di superare le arretratezze e le pigrizie della sinistra e le incongruenze della destra.
Le regole del mercato del lavoro – che da sole non bastano a battere la recessione, ma aiutano – fanno parte integrante della politica economica del Paese (ah, se ne avessimo una…) e l’improduttività sul tema, figlia del bipolarismo paralizzante della Seconda Repubblica, non si può certo sciogliere con l’incompetenza dei “dilettanti”. Male, quindi, se con il “JobActs” si ignorano tutti i competenti suggerimenti dei “professionisti”, finora disattesi dalla cattiva politica. Bene, invece, se servisse a raccogliere il consenso necessario a dare benzina al motore della volontà politica.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.