Grandi annunci dal governo
Adesso, i fatti
La scossa stilistica – basta con i piccoli passi – Renzi l’ha data. Ora serve il contenuto, che non è di qualche decina di miliardi di euro, ma semmai di qualche centinaia.di Enrico Cisnetto - 14 marzo 2014
C’è nello stesso tempo qualcosa di nuovo e molto di vecchio nell’esordio di Renzi da capo del governo. Il nuovo è lo stile, decisamente migliore di quello di Berlusconi seppure appartenente allo stesso seme, e il coraggio, come dimostra il benservito a Cgil e Confindustria senza però – per fortuna – commettere l’errore del centro-destra di voler teorizzare sul piano ideologico l’abbandono della concertazione. Il vecchio è l’approccio non strategico della manovra varata, così come il riproporsi della diarchia tra ministero dell’Economia e palazzo Chigi, che tante volte ha occupato con prepotenza la scena della politica italiana. Infatti, abbiamo assistito ad un pirotecnico lancio di misure contingenti costruite su basi d’argilla e verso le quali i custodi dei conti – a via Venti Settembre, al Quirinale, a Bruxelles – nutrono ampi dubbi e profonde perplessità.
Renzi ha lanciato pochi provvedimenti concreti svincolati da risorse finanziarie (l’estensione del limite temporale dei contratti di lavoro senza vincolo di causalità da 12 a 36 mesi e alleggerimento dei limiti per l’apprendistato) e molti annunci aleatori la cui realizzabilità, a cominciare dal taglio dell’Irpef di 10 miliardi, dipende integralmente da coperture incerte e un po’ raffazzonate. Strutturare l’azione di rilancio del Paese su un “tesoretto” di 20 miliardi è o velleitario o deriva da una scarsa conoscenza di come stanno le cose, visto che ci vuole tra 10 e 20 volte tanto. Se poi si tratta di soldi la cui esistenza è tutta da verificare, è ancora peggio.
Sulla stessa spending review, strumento principale per il reperimento delle risorse che ha in passato scontato diversi fallimenti, il commissario Cottarelli ha specificato che per il 2014 l’ipotesi è di recuperare 3 miliardi (e non 7), e tra l’altro solo a patto che i tagli partano immediatamente. É palese: siamo ancora nel campo delle ipotesi, come lo sono sia gli incassi dal rientro dei capitali dall’estero che i potenziali proventi iva derivanti da soldi spesi per l’edilizia scolastica o dal saldo dei debiti della pubblica amministrazione. Misure le cui norme sono ancora tutte da scrivere. Stessa situazione per il taglio del 10% dell’Irap, da finanziare con l’aumento dell’aliquota sulle rendite finanziarie dal 20 al 26%, che potrebbe anche indurre una fuoriuscita di capitali e rivelarsi controproducente. Per non parlare della scommessa sui 3 miliardi risparmiati dai minori interessi sul debito pubblico, visto che conosciamo la volatilità dei mercati e non esiste certezza al mondo che domani lo spread non torni a salire.
Il premier ha limpidamente dichiarato di voler fare come Tremonti (quello che lanciò “la finanza creativa”): mettere a copertura il miglioramento futuro del quadro economico. Per adesso, tutto è rimandato al Def di fine marzo, che non sarà però l’unico controllo che il governo dovrà superare. Renzi sostiene, infatti, che altri 6,4 miliardi si potrebbero recuperare avvicinando il nostro rapporto deficit/pil all’invalicabile limite del 3% dal 2,6% che la Commissione europea stima sia oggi.
Insomma, il (fu) rottamatore può indignarsi oggi quanto vuole contro chi gli domanda dove prenderà i soldi: vedremo cosa farà domani quando le domande, o i dinieghi, arriveranno da Bruxelles. Per non andare allo scontro frontale è possibile poi che arrivino i veti di Padoan e di Napolitano, garanti dei rapporti politici ed economici dell’Italia con l’Europa. Dopo i roboanti annunci, dunque, sono ora in programma una serie di prove ad eliminazione diretta in cui Renzi dovrà fare i conti con il Ministero dell’Economia e la Ragioneria di Stato, il Quirinale e il Parlamento, l’Unione europea e i mercati internazionali.
E se anche, nel migliore dei mondi possibili, tutte le prove fossero superate, il gioco sarà valso la candela? Parliamoci chiaro: tagliare il cuneo fiscale del 3,4% (10 miliardi su 296,4) non può fare la differenza e 10 (o 20) miliardi, mentre non bastano per far cambiare passo all’Italia, mentre potrebbero rivelarsi un buco incolmabile per i nostri conti pubblici. La grave crisi economica in atto è un mix di fragilità reali e di sfiducia collettiva e pensare che qualche euro in più ai lavoratori dipendenti generi automaticamente consumo è una pia illusione. Chi guadagna 1400 euro al mese, se riceve 80 euro in più, si guarda attorno, scruta i foschi orizzonti, respira un po’ di incertezza e mette quei soldi da parte per probabili emergenze future. Non sarebbe stato molto diverso se quei soldi fossero stati integralmente dirottati sull’Irap (una tassa talmente mal formulata che andrebbe abolita), visto che lo stesso clima di sfiducia e demoralizzazione lo vivono le imprese, che avrebbero trasformato in investimenti solo metà di quelle risorse.
La scossa stilistica – basta con i piccoli passi – Renzi l’ha data. Ora serve il contenuto, che non è di qualche decina di miliardi di euro, ma semmai di qualche centinaia. Da ricavare da un piano Marshall di finanza straordinaria – che metta in gioco il patrimonio pubblico e chieda il soccorso di quello privato (senza intenti punitivi, anzi) – sulla base di un ripensato modello di sviluppo. Ben di più e di più complesso della presunta rivoluzione renziana.
Renzi ha lanciato pochi provvedimenti concreti svincolati da risorse finanziarie (l’estensione del limite temporale dei contratti di lavoro senza vincolo di causalità da 12 a 36 mesi e alleggerimento dei limiti per l’apprendistato) e molti annunci aleatori la cui realizzabilità, a cominciare dal taglio dell’Irpef di 10 miliardi, dipende integralmente da coperture incerte e un po’ raffazzonate. Strutturare l’azione di rilancio del Paese su un “tesoretto” di 20 miliardi è o velleitario o deriva da una scarsa conoscenza di come stanno le cose, visto che ci vuole tra 10 e 20 volte tanto. Se poi si tratta di soldi la cui esistenza è tutta da verificare, è ancora peggio.
Sulla stessa spending review, strumento principale per il reperimento delle risorse che ha in passato scontato diversi fallimenti, il commissario Cottarelli ha specificato che per il 2014 l’ipotesi è di recuperare 3 miliardi (e non 7), e tra l’altro solo a patto che i tagli partano immediatamente. É palese: siamo ancora nel campo delle ipotesi, come lo sono sia gli incassi dal rientro dei capitali dall’estero che i potenziali proventi iva derivanti da soldi spesi per l’edilizia scolastica o dal saldo dei debiti della pubblica amministrazione. Misure le cui norme sono ancora tutte da scrivere. Stessa situazione per il taglio del 10% dell’Irap, da finanziare con l’aumento dell’aliquota sulle rendite finanziarie dal 20 al 26%, che potrebbe anche indurre una fuoriuscita di capitali e rivelarsi controproducente. Per non parlare della scommessa sui 3 miliardi risparmiati dai minori interessi sul debito pubblico, visto che conosciamo la volatilità dei mercati e non esiste certezza al mondo che domani lo spread non torni a salire.
Il premier ha limpidamente dichiarato di voler fare come Tremonti (quello che lanciò “la finanza creativa”): mettere a copertura il miglioramento futuro del quadro economico. Per adesso, tutto è rimandato al Def di fine marzo, che non sarà però l’unico controllo che il governo dovrà superare. Renzi sostiene, infatti, che altri 6,4 miliardi si potrebbero recuperare avvicinando il nostro rapporto deficit/pil all’invalicabile limite del 3% dal 2,6% che la Commissione europea stima sia oggi.
Insomma, il (fu) rottamatore può indignarsi oggi quanto vuole contro chi gli domanda dove prenderà i soldi: vedremo cosa farà domani quando le domande, o i dinieghi, arriveranno da Bruxelles. Per non andare allo scontro frontale è possibile poi che arrivino i veti di Padoan e di Napolitano, garanti dei rapporti politici ed economici dell’Italia con l’Europa. Dopo i roboanti annunci, dunque, sono ora in programma una serie di prove ad eliminazione diretta in cui Renzi dovrà fare i conti con il Ministero dell’Economia e la Ragioneria di Stato, il Quirinale e il Parlamento, l’Unione europea e i mercati internazionali.
E se anche, nel migliore dei mondi possibili, tutte le prove fossero superate, il gioco sarà valso la candela? Parliamoci chiaro: tagliare il cuneo fiscale del 3,4% (10 miliardi su 296,4) non può fare la differenza e 10 (o 20) miliardi, mentre non bastano per far cambiare passo all’Italia, mentre potrebbero rivelarsi un buco incolmabile per i nostri conti pubblici. La grave crisi economica in atto è un mix di fragilità reali e di sfiducia collettiva e pensare che qualche euro in più ai lavoratori dipendenti generi automaticamente consumo è una pia illusione. Chi guadagna 1400 euro al mese, se riceve 80 euro in più, si guarda attorno, scruta i foschi orizzonti, respira un po’ di incertezza e mette quei soldi da parte per probabili emergenze future. Non sarebbe stato molto diverso se quei soldi fossero stati integralmente dirottati sull’Irap (una tassa talmente mal formulata che andrebbe abolita), visto che lo stesso clima di sfiducia e demoralizzazione lo vivono le imprese, che avrebbero trasformato in investimenti solo metà di quelle risorse.
La scossa stilistica – basta con i piccoli passi – Renzi l’ha data. Ora serve il contenuto, che non è di qualche decina di miliardi di euro, ma semmai di qualche centinaia. Da ricavare da un piano Marshall di finanza straordinaria – che metta in gioco il patrimonio pubblico e chieda il soccorso di quello privato (senza intenti punitivi, anzi) – sulla base di un ripensato modello di sviluppo. Ben di più e di più complesso della presunta rivoluzione renziana.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.