Necessità non più procrastinabili
Abbattere debito e spesa
Ancora prima delle sorti dell'euro, preoccupiamoci dei contidi Davide Giacalone - 20 gennaio 2012
Sia che l’euro sopravviva alla pochezza della classe politica europea, sia che salti mettendo tutti sulla scia dei greci, noi italiani avremo da fare i conti, subito e sul serio, con il debito e la spesa pubblica. Entrambe da abbattere. Se ci apprestassimo a farlo con le tasse non solo non ci riusciremo, ma faremmo stramazzare i contribuenti, il sistema produttivo e l’Italia tutta. Se pensassimo di farlo con i tagli ne usciremmo sfregiati e dissanguati, tanto più che a tagliare sarebbe chi dovrebbe essere tagliato. Ci sono due vie alternative, da imboccare subito.
Sul fronte del debito dobbiamo dargli un colpo secco, portandolo sotto la totalità del prodotto interno lordo, quindi allineandolo a quello degli altri grandi europei (dove cresce). Possiamo riuscirci senza allungare le mani sul patrimonio dei privati, quindi senza porre irrisolvibili problemi di equità e tenuta politica. Possiamo riuscirci lavorando sul patrimonio pubblico. Ci sono diversi possibili approcci, discussi in circoli chiusi, mentre sarebbe bene ne parlasse la politica tutta, ove abbia ancora voglia d’esistere: si prende il patrimonio alienabile, composto da mattoni e partecipazioni, si aggiungono concessioni e crediti, li si mettono in un veicolo finanziario, s’incarica chi lo dirigerà di venderlo al meglio (non certo in una botta, perché equivarrebbe a svenderlo e regalarlo, che di regali se ne sono già fatti troppi), intanto si quota la società e, se necessario, si chiede agli italiani con maggiore liquidità di acquisire una parte delle quote. Non sarebbe una patrimoniale, perché i soldi non verrebbero buttati via nel servizio ad un debito (con questi tassi e con questa recessione) insostenibile, ma impiegati in un fondo che restituirà i soldi a chi ce li ha messi. Un valore stimabile fra i 400 e i 600 miliardi (a seconda delle formule), che farebbero scendere di trenta punti il debito, portandolo al 90% sul pil.
La regola del fondo è: si vende a fette programmate e il ricavato va in gran parte all’abbattimento del debito e per la parte rimanente a investimenti in reti e infrastrutture. Così il mercato si riprende. Sul fronte della spesa inutile far finta di credere che ci sia un qualche governo in grado di abbassarla quanto serve. Arrivati alla soglia della spesa corrente, composta da stipendi e gestione, l’incapacità politica non saprà mai conciliare la riduzione dei servizi con il necessario consenso (siamo una democrazia, anche se si tende a dimenticarlo). Usiamo un sistema diverso: lo Stato ceda attività al mercato. Vale anche per la scuola, la sanità, la pubblica amministrazione. Chiedendo a chi gestirà di garantire almeno la stessa qualità (non ci vuole poi molto), ma percependo somme progressivamente minori, fino ad una riduzione del 20% in cinque anni. Per i privati sarebbe un affare, perché una gestione passabilmente razionale, non imbrigliata dalla cogestione politica e sindacale, consente sinergie oggi sconosciute. Anche solo lavorando sull’organizzazione e la digitalizzazione la scuola costa meno, offre un servizio migliore ed è un luogo di lavoro più attraente per chi voglia fare l’insegnante e non l’impiegato in attesa di pensione. Se lo Stato si sottopone ad una drastica cura dimagrante, divenendo più leggero, evita che a stecchetto siano tenuti i cittadini. Né vale lo spauracchio del taglio dei banchi, dei posti letto in corsia, o dei servizi essenziali, perché questo, semmai, è quel che accadrà continuando l’andazzo attuale. Con provvedimenti di questo tipo i tassi scendono senza che ci sia bisogno di strusciarsi alla signora Merkel, anzi, rappresentando un esempio di quel che dovrà fare l’Europa tutta, ove non voglia affondare nelle proprie paure.
In un Paese così rivoluzionato le liberalizzazioni, che ci vogliono, ma devono essere vere e non vendicative, partendo da quel che invischia il mercato, sarebbero un formidabile volano di sviluppo. Ma sì, datemi pure del matto, però credo che con un po’ di sana politica, una buna dose d’orgoglio nazionale e tanta libertà (anche dal giogo fiscale) per i produttori, imprenditori e lavoratori, possiamo ben puntare ad un nuovo salto in avanti. Oltre tutto si chiude con il passato della miseria politica e dell’accattonaggio a spese della collettività. Non mancano le forze, mancano il coraggio e le idee.
Sul fronte del debito dobbiamo dargli un colpo secco, portandolo sotto la totalità del prodotto interno lordo, quindi allineandolo a quello degli altri grandi europei (dove cresce). Possiamo riuscirci senza allungare le mani sul patrimonio dei privati, quindi senza porre irrisolvibili problemi di equità e tenuta politica. Possiamo riuscirci lavorando sul patrimonio pubblico. Ci sono diversi possibili approcci, discussi in circoli chiusi, mentre sarebbe bene ne parlasse la politica tutta, ove abbia ancora voglia d’esistere: si prende il patrimonio alienabile, composto da mattoni e partecipazioni, si aggiungono concessioni e crediti, li si mettono in un veicolo finanziario, s’incarica chi lo dirigerà di venderlo al meglio (non certo in una botta, perché equivarrebbe a svenderlo e regalarlo, che di regali se ne sono già fatti troppi), intanto si quota la società e, se necessario, si chiede agli italiani con maggiore liquidità di acquisire una parte delle quote. Non sarebbe una patrimoniale, perché i soldi non verrebbero buttati via nel servizio ad un debito (con questi tassi e con questa recessione) insostenibile, ma impiegati in un fondo che restituirà i soldi a chi ce li ha messi. Un valore stimabile fra i 400 e i 600 miliardi (a seconda delle formule), che farebbero scendere di trenta punti il debito, portandolo al 90% sul pil.
La regola del fondo è: si vende a fette programmate e il ricavato va in gran parte all’abbattimento del debito e per la parte rimanente a investimenti in reti e infrastrutture. Così il mercato si riprende. Sul fronte della spesa inutile far finta di credere che ci sia un qualche governo in grado di abbassarla quanto serve. Arrivati alla soglia della spesa corrente, composta da stipendi e gestione, l’incapacità politica non saprà mai conciliare la riduzione dei servizi con il necessario consenso (siamo una democrazia, anche se si tende a dimenticarlo). Usiamo un sistema diverso: lo Stato ceda attività al mercato. Vale anche per la scuola, la sanità, la pubblica amministrazione. Chiedendo a chi gestirà di garantire almeno la stessa qualità (non ci vuole poi molto), ma percependo somme progressivamente minori, fino ad una riduzione del 20% in cinque anni. Per i privati sarebbe un affare, perché una gestione passabilmente razionale, non imbrigliata dalla cogestione politica e sindacale, consente sinergie oggi sconosciute. Anche solo lavorando sull’organizzazione e la digitalizzazione la scuola costa meno, offre un servizio migliore ed è un luogo di lavoro più attraente per chi voglia fare l’insegnante e non l’impiegato in attesa di pensione. Se lo Stato si sottopone ad una drastica cura dimagrante, divenendo più leggero, evita che a stecchetto siano tenuti i cittadini. Né vale lo spauracchio del taglio dei banchi, dei posti letto in corsia, o dei servizi essenziali, perché questo, semmai, è quel che accadrà continuando l’andazzo attuale. Con provvedimenti di questo tipo i tassi scendono senza che ci sia bisogno di strusciarsi alla signora Merkel, anzi, rappresentando un esempio di quel che dovrà fare l’Europa tutta, ove non voglia affondare nelle proprie paure.
In un Paese così rivoluzionato le liberalizzazioni, che ci vogliono, ma devono essere vere e non vendicative, partendo da quel che invischia il mercato, sarebbero un formidabile volano di sviluppo. Ma sì, datemi pure del matto, però credo che con un po’ di sana politica, una buna dose d’orgoglio nazionale e tanta libertà (anche dal giogo fiscale) per i produttori, imprenditori e lavoratori, possiamo ben puntare ad un nuovo salto in avanti. Oltre tutto si chiude con il passato della miseria politica e dell’accattonaggio a spese della collettività. Non mancano le forze, mancano il coraggio e le idee.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.