Il rinnovo del contratto del pubblico impiego
A quota cento, malamente
L'aumento agli statali non deve dipendere dalla cassa, ma dalla competitività del Paesedi Davide Giacalone - 11 maggio 2005
Scaduto da molto tempo e trascinato oltre il limite tollerabile, il
contratto per i dipendenti statali giunge alla conclusione delle trattative
in un clima elettorale. Gran brutta cosa. A questo s’aggiunga che i
componenti del governo non riescono ad imparare a star zitti, con il
risultato d’indebolirsi sempre più, peraltro in una sciocca divisione fra
presunti rigoristi e presunti calabraghisti. Risultato: il limite
invalicabile di ieri è già stato valicato, ed ora ci si attesta su un
aumento massimo mensile di 100 euro.
Le cose sarebbero andate diversamente, se solo si fosse provato a ragionare politicamente, avendo in testa un approdo riformista. Innanzi tutto gli aumenti di stipendio per gli statali non devono essere una variabile dipendente dalle disponibilità di cassa, della serie: se ci sono soldi ve li diamo e se non ci sono ve li neghiamo. E’ vero che gli statali sono pagati poco (anche se i loro salari sono aumentati, mediamente, più degli altri, negli ultimi anni), ma è anche vero che spesso si accetta una paga scarsa in cambio di un lavoro scarso, quando non addirittura di un lavoro finto. E siccome generalizzare e moralisteggiare sono attività per deboli di comprendonio, il compito del legislatore e del governante è quello di mettere mano ad una rivoluzione del settore statale, ivi compreso il trattamento del personale. A quella rivoluzione, all’introduzione di selezione e premi al merito, si deve subordinare la spesa. Ad una riforma di questo tipo i sindacati, che sono conservatori, si opporrebbero, ma non tocca a loro farla.
Aumentare gli stipendi non crea, oggi, problemi dal punto di vista dell’inflazione, perché l’inflazione è bassissima, ma, di sicuro, introduce un elemento imitativo negli altri rinnovi contrattuali, quindi crea un problema di competitività e di aumento del costo dei fattori produttivi. Ed è questo il motivo per il quale il quotidiano della Confindustria attacca alcuni ministri. Il fatto è che se da una parte del tavolo cambia il protagonista della trattativa (lo Stato e le imprese private), dall’altra c¹è sempre lo stesso soggetto, ovvero i sindacati confederali. Se si fosse posta la condizione di chiudere il contratto degli statali in coerenza e coincidenza con altri rilevanti contratti del comparto privato, si sarebbero messi i sindacati davanti al peso della coerenza e gli imprenditori privanti nell’impossibilità di prendersela con il governo.
La prospettiva di uno sciopero, naturalmente, terrorizza il governo. E’ comprensibile. Anche perché una cosa è dire, agli italiani: guardate, concedo cinque euro in meno di aumenti ai dipendenti pubblici, e con la somma risparmiata ci faccio questo e quello; altra cosa è tentare di tenere il fronte invocando difficoltà di bilancio che tutti (magari sbagliando, ma non poi troppo) pensano possano trovare altrove occasioni di risparmio e di non sperpero.
Queste sono alcune delle ragioni per le quali ci stiamo facendo pubblicamente del male.
Le cose sarebbero andate diversamente, se solo si fosse provato a ragionare politicamente, avendo in testa un approdo riformista. Innanzi tutto gli aumenti di stipendio per gli statali non devono essere una variabile dipendente dalle disponibilità di cassa, della serie: se ci sono soldi ve li diamo e se non ci sono ve li neghiamo. E’ vero che gli statali sono pagati poco (anche se i loro salari sono aumentati, mediamente, più degli altri, negli ultimi anni), ma è anche vero che spesso si accetta una paga scarsa in cambio di un lavoro scarso, quando non addirittura di un lavoro finto. E siccome generalizzare e moralisteggiare sono attività per deboli di comprendonio, il compito del legislatore e del governante è quello di mettere mano ad una rivoluzione del settore statale, ivi compreso il trattamento del personale. A quella rivoluzione, all’introduzione di selezione e premi al merito, si deve subordinare la spesa. Ad una riforma di questo tipo i sindacati, che sono conservatori, si opporrebbero, ma non tocca a loro farla.
Aumentare gli stipendi non crea, oggi, problemi dal punto di vista dell’inflazione, perché l’inflazione è bassissima, ma, di sicuro, introduce un elemento imitativo negli altri rinnovi contrattuali, quindi crea un problema di competitività e di aumento del costo dei fattori produttivi. Ed è questo il motivo per il quale il quotidiano della Confindustria attacca alcuni ministri. Il fatto è che se da una parte del tavolo cambia il protagonista della trattativa (lo Stato e le imprese private), dall’altra c¹è sempre lo stesso soggetto, ovvero i sindacati confederali. Se si fosse posta la condizione di chiudere il contratto degli statali in coerenza e coincidenza con altri rilevanti contratti del comparto privato, si sarebbero messi i sindacati davanti al peso della coerenza e gli imprenditori privanti nell’impossibilità di prendersela con il governo.
La prospettiva di uno sciopero, naturalmente, terrorizza il governo. E’ comprensibile. Anche perché una cosa è dire, agli italiani: guardate, concedo cinque euro in meno di aumenti ai dipendenti pubblici, e con la somma risparmiata ci faccio questo e quello; altra cosa è tentare di tenere il fronte invocando difficoltà di bilancio che tutti (magari sbagliando, ma non poi troppo) pensano possano trovare altrove occasioni di risparmio e di non sperpero.
Queste sono alcune delle ragioni per le quali ci stiamo facendo pubblicamente del male.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.