Un fraintendimento esiziale
18 e pubblico impiego
La macchina statale deve applicare la realtà, per diminuire la spesadi Davide Giacalone - 25 marzo 2012
Sostenere che la riforma dell’articolo 18 sarà tema di contrattazione separata, per il pubblico impiego, equivale a dire che la legge è vuoto proclama, da applicarsi solo se conviene. Il problema non è quello di applicare il nuovo testo (quando ci sarà e per quel che dirà) ai pubblici dipendenti, ma di restringere drasticamente l’area del pubblico impiego.
Il dilemma dell’applicazione è ozioso, perché segna la distanza fra le parole e i fatti: lo statuto dei lavoratori si applica anche ai dipendenti pubblici e, semmai, la legge prevede che qui si applichi il 18 anche dove non si raggiungono i quindici dipendenti. Il fatto è che nessuno viene licenziato. La legge, del resto, prevede anche la mobilità, la penalizzazione per scarso rendimento e la licenziabilità per infedeltà ai doveri d’ufficio, ma non è applicata. E se a qualcuno salta in mente di farlo (capita nel settore pubblico allargato, nelle aziende statali) provvede il giudice a rimettere le cose a posto. Quindi: ci si accapiglia sul principio, ma poi la legge fa una brutta fine.
Anche per quel che riguarda il settore privato il tema dell’articolo 18 è tutto nella distanza fra il dire e il fare. Chi mai è favorevole ai licenziamenti discriminatori? Nessuno, ovviamente. Ma il punto è: se si può ricorrere al giudice, se è previsto il reintegro, se al suo avverarsi scattano costi aggiuntivi, e se il giudizio procede lentamente, non è il principio a nuocere al mercato, ma la realtà concreta di un sistema di giustizia che fa pena. Il 18 non è un ostacolo né alle assunzioni né alla crescita, non c’è un solo imprenditore al mondo che si rifiuta di venire in Italia perché c’è il 18. Non vengono perché la giustizia italiana riesce a sostenere che esistono veramente i licenziamenti discriminatori. Non si assume per quello. Il tutto senza mai dimenticare che l’intera impalcatura dello statuto dei lavoratori risente di un’idea fordista del lavoro. Che non esiste più. La riforma, almeno quello che è stato annunciato, cambia questi dati? No. Piace o dispiace per il metodo, per la non concertazione (evviva), per il decisionismo. Ma nel merito cambia poco. Se il giudice considera “crisi” i bilanci in rosso l’azienda continuerà a usare male il fattore lavoro, per dirne una. Alla fine i migliori alleati del presunto liberismo governativo sono i sindacati che proclamano scioperi generali. Essendo quella l’unica prova che la riforma va nel senso che dovrebbe. Mentre il generoso spendersi di Giorgio Napolitano, con tanti saluti alla Costituzione, finisce con l’essere controproducente: sia perché dimostra quel che sosteniamo da molto tempo, ovvero che il Colle ha commissariato la sinistra, sia perché in effetti non ci sarà alcuna valanga di licenziamenti, non ci sarà nulla, forse una slavina di cause.
Torniamo al pubblico impiego: posto che la legge è applicabile, ma non si applica, qual è la via d’uscita? Diminuire il pubblico impiego. La gestione burocratica e deresponsabilizzata è capace di smontare tutte le possibili riforme sul merito, sugli obiettivi e sui premi. L’apparato burocratico clientelare premia la mediocrità, tollera il fannullonismo e se ne frega del resto. Non sente la minaccia delle riforme, perché non ci crede minimamente. Il tutto a cominciare dai dirigenti. Quindi non c’è scampo. Se ne esce cedendo fettone di pubblica amministrazione al mercato. La spesa per molti servizi resterà pubblica, ma dovrà avere indirizzo privato. Voglio informatizzare i tribunali? Incarico un privato di farlo, rilevando il personale pubblico, e lo pago solo se rispetta il contratto. Diminuisce la spesa e aumenta la qualità. Dove sta scritto che l’amministrazione degli insegnanti deve per forza essere com’è? Con la digitalizzazione della scuola sarà facile far emergere i meriti (e i demeriti), sicché si può dare a gestione privata anche l’amministrazione del personale. Non parliamo della sanità: raccontando quel che è successo a Salerno abbiamo dimostrato che basta cambiare mentalità e si fanno miracoli. L’articolo 18 già si applica al pubblico impiego, ma non serve a un accidente. Alla macchina statale si deve applicare la realtà, la fissazione degli obiettivi e la misurazione dei risultati. Il tutto finalizzato alla diminuzione della spesa, in modo da far scendere le tasse. Questa sì sarebbe una rivoluzione.
Anche per quel che riguarda il settore privato il tema dell’articolo 18 è tutto nella distanza fra il dire e il fare. Chi mai è favorevole ai licenziamenti discriminatori? Nessuno, ovviamente. Ma il punto è: se si può ricorrere al giudice, se è previsto il reintegro, se al suo avverarsi scattano costi aggiuntivi, e se il giudizio procede lentamente, non è il principio a nuocere al mercato, ma la realtà concreta di un sistema di giustizia che fa pena. Il 18 non è un ostacolo né alle assunzioni né alla crescita, non c’è un solo imprenditore al mondo che si rifiuta di venire in Italia perché c’è il 18. Non vengono perché la giustizia italiana riesce a sostenere che esistono veramente i licenziamenti discriminatori. Non si assume per quello. Il tutto senza mai dimenticare che l’intera impalcatura dello statuto dei lavoratori risente di un’idea fordista del lavoro. Che non esiste più. La riforma, almeno quello che è stato annunciato, cambia questi dati? No. Piace o dispiace per il metodo, per la non concertazione (evviva), per il decisionismo. Ma nel merito cambia poco. Se il giudice considera “crisi” i bilanci in rosso l’azienda continuerà a usare male il fattore lavoro, per dirne una. Alla fine i migliori alleati del presunto liberismo governativo sono i sindacati che proclamano scioperi generali. Essendo quella l’unica prova che la riforma va nel senso che dovrebbe. Mentre il generoso spendersi di Giorgio Napolitano, con tanti saluti alla Costituzione, finisce con l’essere controproducente: sia perché dimostra quel che sosteniamo da molto tempo, ovvero che il Colle ha commissariato la sinistra, sia perché in effetti non ci sarà alcuna valanga di licenziamenti, non ci sarà nulla, forse una slavina di cause.
Torniamo al pubblico impiego: posto che la legge è applicabile, ma non si applica, qual è la via d’uscita? Diminuire il pubblico impiego. La gestione burocratica e deresponsabilizzata è capace di smontare tutte le possibili riforme sul merito, sugli obiettivi e sui premi. L’apparato burocratico clientelare premia la mediocrità, tollera il fannullonismo e se ne frega del resto. Non sente la minaccia delle riforme, perché non ci crede minimamente. Il tutto a cominciare dai dirigenti. Quindi non c’è scampo. Se ne esce cedendo fettone di pubblica amministrazione al mercato. La spesa per molti servizi resterà pubblica, ma dovrà avere indirizzo privato. Voglio informatizzare i tribunali? Incarico un privato di farlo, rilevando il personale pubblico, e lo pago solo se rispetta il contratto. Diminuisce la spesa e aumenta la qualità. Dove sta scritto che l’amministrazione degli insegnanti deve per forza essere com’è? Con la digitalizzazione della scuola sarà facile far emergere i meriti (e i demeriti), sicché si può dare a gestione privata anche l’amministrazione del personale. Non parliamo della sanità: raccontando quel che è successo a Salerno abbiamo dimostrato che basta cambiare mentalità e si fanno miracoli. L’articolo 18 già si applica al pubblico impiego, ma non serve a un accidente. Alla macchina statale si deve applicare la realtà, la fissazione degli obiettivi e la misurazione dei risultati. Il tutto finalizzato alla diminuzione della spesa, in modo da far scendere le tasse. Questa sì sarebbe una rivoluzione.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.